martedì, 15 ottobre 2024

Corte di Cassazione, Sezioni Unite civili, sentenza n. 6538 del 18 marzo 2010, In tema di revocatoria fallimentare di atti a titolo gratuito, ai sensi della L. Fall., art. 64, la valutazione di gratuità od onerosità di un negozio va compiuta con esclusivo riguardo alla causa concreta,costituita dallo scopo pratico del negozio

Corte di Cassazione, sentenza n. 6538 del 18 marzo 2010

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente –

Dott. ELEFANTE Antonino – Presidente di Sezione –

Dott. MERONE Antonio – Consigliere –

Dott. GOLDONI Umberto – Consigliere –

Dott. SALVAGO Salvatore – rel. Consigliere –

Dott. FORTE Fabrizio – Consigliere –

Dott. MACIOCE Luigi – Consigliere –

Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere –

Dott. SPAGNA MUSSO Bruno – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 451/2006 proposto da:

BANCA A S.P.A., aderente al Fondo Interbancario di Tutela dei

Depositi, Capogruppo del Gruppo Bancario ((OMISSIS)), in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, presso lo studio dell’avvocato, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato, per procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

CURATELA DEL FALLIMENTO DELLA S.R.L.;

– intimata –

sul ricorso /2006 proposto da:

CURATELA DEL FALLIMENTO S.R.L., in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in, presso lo studio

legale,rappresentata e difesa dall’avvocato, per delega in calce al

controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

BANCA S.P.A.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 570/2004 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 08/11/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

02/02/2010 dal Consigliere Dott. SALVATORE SALVAGO;

uditi gli avvocati per delega dell’avvocato;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI

Domenico, che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Il Tribunale di Lamezia Terme con sentenza dell’8 febbraio

2002,in accoglimento della richiesta del Fallimento della s.r.l. A,

dichiarava inefficace il pagamento della somma di L. 2 miliardi, –

ricevuta a titolo di mutuo dalla B – mediante 7 assegni bancari

emessi dal legale rappresentante di detta società su di un conto

corrente presso la Banca popolare di C (poi incorporata dalla Banca

D) al fine di estinguere i debiti dei soci della A nei confronti di

detto istituto di credito. Condannava l’Istituto di credito alla

restituzione della somma di L. 2.136.000.000, oltre agli interessi

legali.

L’impugnazione di quest’ultima Banca è stata accolta in parte dalla

Corte di appello di Catanzaro che, con sentenza dell’8 novembre 2006

ha dichiarato inammissibile la domanda della Curatela rivolta al

pagamento degli interessi legali perchè tardivamente formulata nella

comparsa conclusionale; ha confermato nel resto la decisione di

primo grado osservando (per quanto qui interessa): a) che la domanda

della Curatela, costituita parte civile nel procedimento penale

instaurato per bancarotta fraudolenta nei confronti di S.R., P.L. e

V.C.S., era procedibile per essere diversi i presupposti dell’azione

revocatoria rispetto alla richiesta risarcitoria avanzata nel

giudizio penale; b)che l’azione intrapresa dal Fallimento andava

ricondotta nell’ambito di applicazione della L. Fall., art. 64, in

quanto gli assegni erano stati emessi dall’amministratore unico

della società poi fallita, S.R. e da questi fatti transitare su

altro conto corrente afferente al c.d. Gruppo A al fine di

estinguere i debiti di costoro, perciò da considerarsi terzi, nei

confronti della Banca popolare; ed era fondata anche ove gli assegni

fossero stati emessi in favore di S.R. in proprio e da questi

utilizzati per ripianare la propria posizione debitoria.

Per la cassazione della sentenza la s.p.a. Banca D ha proposto

ricorso per 3 motivi; cui resiste la Curatela del Fallimento con

controricorso recante ricorso incidentale per due motivi.

Questa Corte, con ordinanza 21 maggio 2009 n. 11822, ha rilevato la

sussistenza di un contrasto sulla qualificazione quale atto a titolo

gratuito ovvero oneroso del pagamento eseguito dal terzo ai sensi

dell’art. 1180 c.c., per cui la controversia è stata rimessa alle

Sezioni Unite per la sua composizione. Le parti hanno depositato

memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

2. I ricorsi vanno,anzitutto riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c.,

perchè proposti contro la medesima sentenza.

Con il primo motivo di quello principale, la D, deducendo violazione

dell’art. 75 c.p.p., e art. 295 c.p.c., nonchè difetto di

motivazione censura la sentenza impugnata: a) per non avere

dichiarato estinta per rinuncia l’azione civile malgrado in data

(OMISSIS) il Fallimento avesse esteso la propria costituzione civile

nel procedimento penale contro la A anche nei confronti della Banca

popolare; b) per non avere sospeso il giudizio in attesa della

definizione di quello penale in quanto entrambi vertenti sullo

stesso fatto illecito costituito dalla condotta distruttiva della

somma di L. 2 miliardi.

Il motivo è infondato.

La sentenza impugnata ha accertato, e le parti confermato che la

Curatela del fallimento: a) in data 19 novembre 1986 si è costituita

parte civile nel procedimento penale a carico di S.R., allora

amministratore della società, nonchè di P.L. e V.C.S.,

rispettivamente direttore e presidente della Banca popolare di C,

ora incorporata nella Banca ricorrente; b) con citazione del 28

luglio 1987 ha iniziato il presente giudizio nei confronti della

sola Banca, da entrambi i giudici di merito qualificato “azione

revocatoria L. Fall., ex art. 64”; c) ottenuta l’autorizzazione dal

giudice penale ha esteso la costituzione di parte civile anche nei

confronti della Banca popolare con atto del 23 ottobre 1987.

Ora, dalla disciplina del codice di procedura penale si ricava che

il nostro ordinamento non è più ispirato al principio dell’unità

della giurisdizione, ma a quello dell’autonomia di ciascun processo

e della piena cognizione da parte di ciascun giudice, dell’uno e

dell’altro ramo, delle questioni giuridiche o di accertamento dei

fatti rilevanti ai fini della propria decisione;e quindi alla regola

della completa autonomia e separazione del giudizio civile anche da

quello penale pregiudiziale, non offrendo l’ordinamento altro mezzo

preventivo di coordinamento dei due giudizi all’infuori di quello

previsto dall’art. 75 c.p.p., relativamente ai giudizi risarcitori e

restitutori; con il duplice corollario della prosecuzione parallela

del giudizio civile e del giudizio penale, senza alcuna possibilità

di influenza del secondo sul primo, e dell’obbligo del giudice

civile di accertare in modo autonomo i fatti e la responsabilità

(cfr. Cass. 14.3.2002, n. 3753).

Questa disposizione disciplina nel comma 1, che riproduce

sostanzialmente l’art. 24 del codice previgente, l’ipotesi in cui

l’azione civile è proposta prima della costituzione di parte civile

e, nel comma 3, quella in cui è proposta dopo: nella prima ipotesi

prevede la facoltà di trasferire l’azione civile in sede penale con

il corollario che l’esercizio della facoltà comporta, in deroga al

principio regolatore della litispendenza – cioè quello della

prevenzione – rinuncia “ex lege” agli atti del giudizio civile a

preservazione dell’esigenza che non restino pendenti due giudizi

identici; sicchè il giudice civile deve anche d’ufficio dichiarare

l’estinzione del processo, senza che sia necessaria l’accettazione

della parte (Cass. 317/2009). Mentre alla seconda ipotesi, ravvisata

come eccezione in casi particolari,collega la sospensione necessaria

del giudizio civile, considerando quindi quale regola generale non

più la sospensione suddetta per la pendenza di quello penale, bensì

la separazione dei due giudizi e l’autonoma prosecuzione di essi

(Cass. 6185/2009; 13544/2006; 3753/2002). Per l’applicazione

dell’una o dell’altra disposizione,è tuttavia necessario che tra le

due azioni vi sia identità di oggetto (eadem res) oltre che di

soggetti; che l’identità suddetta venga accertata non in base alla

loro funzione ultima,ovvero al risultato concreto che l’attore

intendeva trarre,bensì esclusivamente alla stregua dei comuni canoni

di identificazione delle azioni: persone, petitum, causa petendi.

Nel caso in esame, invece il giudice di merito ha accertato che le

due azioni si fondano su presupposti diversi e perseguono finalità

egualmente differenti. E le Sezioni Unite devono aggiungere che la

loro causa petendi è addirittura opposta in quanto quella

dell’azione risarcitoria è necessariamente fondata su di un fatto

illecito – reato, nel caso ravvisato nella bancarotta fraudolenta di

cui si è detto; mentre in tutte le ipotesi contemplate dalla L.

Fall., artt. 64 e 67, l’atto contro cui l’azione è indirizzata è

lecito, valido ed efficace, e perde effetto – anche se al disponente

ed al beneficiario non si possa rimproverare alcunchè – solo a

seguito della pronuncia di revoca. Egualmente diverso è il petitura

delle due azioni, che in quella risarcitoria è rivolto a conseguire

la reintegrazione del patrimonio del soggetto depauperato

dall’illecito mediante la corresponsione dell’equivalente pecuniario

o tantundem del pregiudizio subito; mentre nella fattispecie di cui

alla L. Fall., art. 64, ha per oggetto la sanzione di inefficacia

del pagamento eseguito dal solvens (Cass. 1831/2001; 6929/1983;

3854/1980) e la restituzione della somma pagata assume carattere

strumentale al fine della ricostituzione della massa fallimentare

nella consistenza originaria.

A maggior ragione non è poi censurabile la sentenza impugnata per

aver escluso la sospensione del presente giudizio ex art. 75 c.p.c.,

comma 3, in quanto proposto dopo che la stessa Curatela si era

costituita parte civile nei confronti dello S. e dei coimputati (19

novembre 1986): difettandone anche il presupposto logico-giuridico

dell’identità soggettiva tra i due procedimenti dato che quello in

esame è rivolto esclusivamente nei confronti della Banca.

3. Con il secondo motivo, l’Istituto di credito, deducendo

violazione della L. Fall., art. 64, anche in relazione all’art. 112

c.p.c., nonchè carenza e contraddittorietà di motivazione su di un

punto decisivo della controversia,censura la sentenza impugnata per

non essersi avveduta che la Curatela aveva prospettato in primo

grado un’azione di impugnativa di negozi per frode ai creditori con

richiesta di annullamento di vari negozi; che esso ente con l’atto

di impugnazione aveva rilevato l’erronea qualificazione dell’azione

da parte del Tribunale; e che la Corte di appello si era limitata ad

esporre una motivazione per relationem alla sentenza di primo grado

ed a giudicare erroneamente corretta la qualificazione della domanda

come azione L. Fall., ex art. 64.

Questo motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.

Costituiscono principi del tutto pacifici nella giurisprudenza di

legittimità: a) che il vizio di nullità della sentenza per omessa

motivazione, sussiste allorchè essa sia priva dell’esposizione dei

motivi in diritto sui quali è basata la decisione; b) che la

motivazione della sentenza di appello “per relationem” alla sentenza

pronunciata in primo grado è legittima purchè il giudice

d’appello,facendo proprie le argomentazioni del primo giudice,

esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della

pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, in modo

che il percorso argomentativo desumibile attraverso la parte motiva

delle due sentenze risulti appagante e corretto. Nel caso, la

sentenza impugnata ha anzitutto esposto dettagliatamente i fatti di

causa,evidenziando in particolare il mutuo contratto dalla soc.

F.lli A con l’B, e la successiva apertura di uno speciale conto

corrente presso la Banca popolare per il deposito della relativa

somma (e solo di essa); i 7 assegni per un totale di L. 2 miliardi

tratti nello stesso giorno dell’accreditamento sul conto suddetto ed

asseritamente emessi a favore di S.R. in proprio e portati a

scomputo dei debiti dei fratelli A nei confronti della stessa Banca;

ed infine la chiusura immediatamente successiva del suddetto conto

corrente senza che sullo stesso venissero effettuate ulteriori

operazioni.

Ne ha tratto il convincimento che l’intero rapporto e le operazioni

che aveva comportato rientrano nell’ambito di applicazione della

fattispecie di cui alla L. Fall., art. 64; e tale particolare

disamina sia del provvedimento appellato,che delle censure proposte

contro di esso,peraltro condotta avvertendo che la qualificazione

dell’azione da parte di entrambi i giudici di merito doveva

necessariamente adeguarsi al principio espresso dall’art. 112

c.p.c., della corrispondenza della pronuncia alla richiesta del

Fallimento, è già sufficiente ad esaurire l’obbligo di motivazione

gravante sulla sentenza impugnata,nonchè ad escludere il vizio di

mera acritica adesione alla decisione di primo grado prospettato

dalla Banca ricorrente.

4. Con il terzo motivo la Banca, deducendo violazione della L.

Fall., art. 64, anche in relazione all’art. 1180 c.c., nonchè

carenza e contraddittorietà di motivazione,censura la sentenza

impugnata: a) per non aver considerato che nel caso si era in

presenza di un adempimento del debito del Gruppo fratelli A da parte

del terzo (la società poi fallita) ex art. 1180 c.c.: perciò da

qualificare secondo la prevalente giurisprudenza a titolo oneroso

con riguardo all’accipiens, come dimostravano le clausole onerose

apposte dall’B nel contratto di finanziamento,e non connotato da

animo liberale, neppure prospettato dalla Curatela; b) che occorreva

perciò valutare anche i rapporti intercorsi da S.R. con il gruppo

familiare A ed esso Istituto di credito, prendendo atto che gli

assegni erano pervenuti alla Banca tramite il prenditore S.R. e non

direttamente dalla società fallita, la quale aveva invece emesso i

titoli a favore del primo (un assegno di L. 68 milioni era stato

emesso a favore di un terzo del tutto estraneo al giudizio); e)per

avere dapprima ritenuto che l’elemento psicologico resta irrilevante

nella fattispecie della L. Fall., art. 64, e poi concluso che doveva

ritenersi provata la conoscenza in capo alla banca dei rapporti

interni al gruppo, in assenza di qualsiasi prova al riguardo; e

senza indicare in alcun modo le ragioni di un tal convincimento.

Viene in tal modo posta all’esame delle Sezioni Unite la questione

concernente la natura – onerosa o gratuita – dell’atto con cui un

soggetto adempie il debito altrui,con particolare riguardo al

pagamento ad opera della società,del debito del proprio socio:

questione dalla quale dipende l’applicabilità della L. Fall., art.

64, in ipotesi di fallimento del solvens e che ha indotto la prima

Sezione della Corte con la ricordata ordinanza di rimessione a

segnalare la sussistenza e la persistenza di un contrasto di

giurisprudenza nell’ambito della Corte. Ciò in quanto,un primo

orientamento,radicato nel tempo ha sostenuto che il pagamento del

debito altrui costituisce per chi paga un atto a titolo gratuito

perchè il beneficio è destinato all’originario debitore rimasto

estraneo all’atto, con la conseguenza che tale liberalità, in caso

di fallimento del “solvens” è da considerarsi inefficace ai sensi

della L. Fall., art. 64 (Cass. 6918/2005; 11093/2004; 5264/1998;

6909/1997; 5616/1992; 6929/1983). Laddove altro indirizzo ha seguito

il principio opposto che in tema di pagamento compiuto dal fallito

per estinguere il debito di un terzo, la gratuità dell’atto ai fini

della revoca L. Fall., ex art. 64, può essere affermata unicamente

in relazione al debitore in quanto l’adempimento ex art. 1180 c.c.,

da parte del soggetto poi sottoposto a procedura fallimentare

configura un atto a titolo gratuito solo nei rapporti fra questi ed

il debitore ove manchi una causa onerosa che ne giustifichi la

liberazione, mentre nei rapporti fra il fallito ed il creditore che

ha ricevuto il pagamento ha carattere indubbiamente oneroso (Cass.

889/2006; 15515/2001; 9560/1991; 3265/1989; 5548/1983).

Infine, Cass. 6739/2008, muovendo dal rilievo che l’adempimento in

senso tecnico è solo il comportamento di chi sia obbligato alla

prestazione, ha affermato che il pagamento del terzo non costituisce

“mera esecuzione dell’obbligazione preesistente ma ha una sua causa

autonoma che può risultare onerosa o gratuita a seconda che l’atto

estintivo del debito dipenda o meno dalla controprestazione di uno

dei due soggetti dell’obbligazione estinta” e che di conseguenza,

agli effetti della L. Fall., art. 64, il pagamento del debito altrui

effettuato da soggetto poi fallito è atto gratuito qualora si tratti

di atto di disposizione del suo patrimonio senza contropartita anche

in un altro rapporto nel cui ambito l’atto risulti preordinato al

soddisfacimento di un ben preciso interesse economico, sia pure

mediato e indiretto.

Nessuna indicazione a favore dell’una o dell’altra tesi è fornita

dalle recenti riforme (L. n. 80 del 2005, e D.Lgs. n. 5 del 2006,

nonchè 169 del 2007), in seguito alle quali la disposizione

dell’art.64 è rimasta invariata rispetto alla formulazione

originaria.

5. Le Sezioni Unite ritengono che le due contrapposte tesi, così in

dottrina come in giurisprudenza,limitando entrambe l’esame nella

ricerca della prestazione e/o della controprestazione al rapporto

bilaterale terzo – creditore (la prima), ovvero debitore – creditore

(la seconda), peraltro nella sua connotazione astratta,finiscono per

risultare egualmente apodittiche e prive di collegamento con il

complessivo regolamento contrattuale predisposto dalle parti ed

ancor più con l’effettivo rapporto economico da esse inteso

perseguire. Al riguardo non può disconoscersi che la L. Fall., art.

64, disponendo l’inefficacia verso i creditori degli atti a titolo

gratuito compiuti dal fallito nei due anni anteriori al fallimento

si rivolge,come indica inequivocabilmente il suo stesso tenore

letterale non già ad atti riguardati in funzione della posizione del

creditore,per il fatto che costui ne subisce comunque l’inefficacia,

bensì “agli atti a titolo gratuito” provenienti dal soggetto che

disponga del proprio patrimonio e successivamente venga dichiarato

fallito: tali qualificandoli in virtù della natura obbiettiva

dell’atto, rapportato unicamente ad un elemento oggettivo temporale

anteriore alla dichiarazione di fallimento; e con le sole eccezioni

previste nella seconda parte della norma (regali di uso ed atti

compiuti in adempimento di un dovere morale o a scopo di pubblica

utilità),la cui previsione non avrebbe senso se la gratuità

dell’atto fosse stata considerata soltanto (o anche) nella

prospettiva del creditore.

Il che corrisponde del resto alla finalità della norma,di cui più

volte questa Corte ha sottolineato il particolare rigore –

equiparabile soltanto a quello del precedente art. 44 – di non

consentire il relativo pregiudizio alla disponibilità patrimoniale

del disponente, che si traduce, in fase fallimentare, nella

menomazione delle possibilità satisfattive della massa dei creditori

concorrenti; sicchè è proprio il pregiudizio provocato dall’atto di

disposizione del proprio patrimonio a divenire elemento essenziale

per giustificare la sanzione dell’inefficacia delle disposizioni,

proprio in funzione della tutela di interessi i cui titolari sono

chiaramente individuati subito nella parte iniziale dell’art. 64,

con riferimento al destinatario del beneficio dell’inefficacia

relativa (i creditori del disponente).

D’altra parte la norma suddetta fa parte integrante del sistema

revocatorio compreso nella 3^ sezione della legge fallimentare in

cui tutte le disposizioni sono ispirate dalla tutela della medesima

ratio del ceto creditorio o di alcuni particolari creditori ed in

cui la nozione di atto a titolo gratuito è utilizzata proprio con

riferimento alla situazione patrimoniale del soggetto poi fallito:

come dimostrano, l’art. 69 che dopo le modifiche introdotte dal

D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, art. 54, stabilisce che gli atti a

titolo gratuito compiuti tra coniugi più di due anni prima della

dichiarazione di fallimento, ma nel tempo in cui il fallito

esercitava un’impresa commerciale, sono revocati se il coniuge non

prova che ignorava lo stato d’insolvenza del coniuge fallito; nonchè

l’art. 123, il quale dispone che, in caso di riapertura del

fallimento, sono privi di effetto nei confronti dei creditori gli

atti a titolo gratuito, posteriori alla chiusura e anteriori alla

riapertura del fallimento,compiuti dal fallito (Negli stessi termini

gli artt. 192 – 194 c.p.). Per cui soltanto con un’inammissibile

salto logico è possibile trarre da questa normativa il risultato che

per l’art. 64 rilevano,contrariamente al suo apparente contenuto, il

punto di vista dell’accipiens e della natura gratuita ovvero onerosa

del suo acquisto,da individuare esclusivamente con riferimento al

negozio giuridico intercorso con il suo debitore di cui

l’adempimento del terzo costituisce attuazione,neanche menzionato

pur indirettamente dalla norma; e che per converso non possa venire

in rilievo ed essere considerata, perchè estranea alla pattuizione

tra creditore e debitore, la causa dell’atto di disposizione del

proprio patrimonio posto in essere dal fallito cui invece la

disposizione legislativa fa espresso riferimento.

Nè vale evocare a sostegno di questa interpretazione la L. Fall.,

art. 67, comma 2, che pone fra gli atti onerosi quelli costitutivi

di un diritto di prelazione per debiti,anche di

terzi,contestualmente anche creati; nonchè l’art. 2901 c.c., comma

2, secondo cui le garanzie contestuali per debito altrui sono

considerate a titolo oneroso,perciò privando di rilievo le ragioni

per le quali il garante vincola il proprio patrimonio a garanzia

delle altrui obbligazioni e spostando l’attenzione sulla posizione

del garantito: in quanto entrambe le disposizioni dimostrano

soltanto che il legislatore ha ritenuto di dettare un criterio

specifico per individuare la natura onerosa (o meno) di una

prestazione di garanzia ricollegandola alla contestualità del

credito garantito. E che in virtù della scelta legislativa per

queste situazioni soggettive resta inapplicabile la regola dell’art.

64, proprio per la mancanza del presupposto della gratuità dell’atto

di disposizione del fallito: al cui schema di riferimento nessun

accenno sia pure indiretto è contenuto in alcuna delle due norme,

che semmai confermano piuttosto che smentire l’interpretazione della

norma revocatoria appena recepita (Cfr. Cass. 5 dicembre 1992, n.

12948).

6. Se tuttavia deve ritenersi che agli effetti della L. Fall., art.

64, l’individuazione dell’atto gratuito vada compiuta privilegiando

la prospettiva del solvens, non per questo la relativa nozione e la

distinzione con la categoria degli atti a titolo oneroso, deve

continuare ad essere riferita alla causa del negozio quale

tradizionalmente individuata in base alla nota definizione della

Relazione al Codice civile – “la funzione economico-sociale che il

diritto riconosce ai suoi fini e che solo giustifica la tutela

dell’autonomia privata -; ed applicata negli anni immediatamente

successivi dalla giurisprudenza secondo una concezione unificante le

varie tipologie,necessariamente collegata al “tipo” individuato dal

legislatore (c.d. causa tipica) e perciò fondata sull’astrattezza di

tale requisito. Alla quale costantemente si è riferito il primo

orientamento riconducendo la natura onerosa o gratuita dell’atto

sempre e soltanto nell’ottica del rapporto bilaterale tra chi attua

l’attribuzione ed il creditore che la riceve: perciò richiedendo per

accedere alla prima opzione che le prestazioni siano legate sul

piano giuridico – formale da un nesso sinallagmatico e

corrispettivo; e concludendo sistematicamente per la gratuità

dell’atto di disposizione tutte le volte che non sia stato

costituito alcun corrispettivo con l’accipiens, o che comunque non

risulti un rapporto causale che la giustifichi secondo il modello

tipico.

Siffatta ricostruzione non tiene conto, anzitutto dell’evoluzione

che ha interessato la nozione di “causa del negozio” in questi

ultimi decenni,nè dei risultati al riguardo raggiunti dalla più

qualificata dottrina e dalla giurisprudenza di legittimità. Le

quali, muovendo dalla categoria delle c.d. “prestazioni isolate”

(artt. 627, 651 e 1197 c.c., art. 1706 c.c., comma 2, artt. 2034 e

2058 c.c., ecc.), mancanti di una loro funzione aggettiva

astrattamente predeterminata,hanno preso in considerazione

particolari categorie di negozi,quali la prestazione di garanzia

(reale o personale) per un debito altrui, la modificazione del lato

passivo del rapporto obbligatorio (delegazione, espromissione,

accollo, art. 1268 c.c. e ss.), l’adempimento del terzo (art. 1180

c.c.), la cessione del credito (art. 1260 c.c.), la rinuncia a un

diritto, fra cui la remissione di debito e, secondo alcuni, la

cessione del contratto: osservando che per essi è difficile

individuare una causa oggettiva nel senso tradizionale, dato che non

c’è una coincidenza fra la funzione pratica del contratto e la causa

economico-giuridica tradizionale; e che tuttavia anche per questi

negozi,classificati “astratti” o “causa astratta o generica”, è

egualmente indispensabile individuare la causa sia pure in base ad

una impostazione differente non soggetta all’obbligo predeterminato

di modelli astratti,ma attenta strettamente al negozio posto in

essere dai contraenti, nonchè all’affare nel suo complesso: quanto

meno onde valutare la meritevolezza dell’operazione alla stregua di

quanto dispone l’art. 1322 c.c., comma 2, e pervenire ad una

giustificazione causale anche nei contratti più complessi,nei

fenomeni dei collegamenti negoziali e più in generale nei negozi da

sempre qualificati “astratti”. Per cui Cass. 10490/2006 ha definito

“causa del contratto”, qualificandola “concreta” in contrapposizione

alla nozione tradizionale, lo scopo pratico del negozio, la sintesi,

cioè, degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a

realizzare (c.d. causa concreta), quale funzione individuale della

singola e specifica negoziazione, al di la del modello astratto

utilizzato. E le successive decisioni di questa Corte, rese anche a

sezioni unite (sent. 26972 – 26975/2008), hanno ripetutamente

condiviso e ribadito la nozione di “causa concreta”, rendendo

superflua la nozione di negozio astratto,pur esso inserito in un più

vasto regolamento di interessi; e compiendo la verifica della

giustificazione causale nell’ambito dell’intera operazione economica

compiuta dalle parti.

7. Proprio per la particolare fattispecie dell’adempimento del

terzo, neanch’essa presa in considerazione dal primo indirizzo,e che

pur rientra tra i negozi in passato qualificati a causa astratta o

generica, la recente concezione della causa come funzione concreta

del contratto ben si presta ad interpretare il regolamento voluto

dalle parti in modo più aderente alla realtà.

Come rilevato, infatti, da questa Corte, detto istituto presuppone

che il terzo estraneo ad un rapporto obbligatorio intercorrente tra

altre parti,e dunque non obbligato in proprio ad estinguerlo (come

nel caso del fideiussore o di altro garante), paghi spontaneamente

al creditore dell’obbligazione in questione perciò rivestendo la

natura di figura composita, da un lato negoziale e dall’altro

esecutiva nel momento in cui, attuando un precedente rapporto, si

perfeziona con la diretta esecuzione della prestazione in favore del

creditore,estinguendone la pretesa in forza della specifica

disposizione dell’art. 1180 c.c., (perciò discostandosi

dall’adempimento in senso proprio previsto dall’art. 1218 c.c.):

senza la quale l’adempimento del terzo costituirebbe soltanto una

invasione dell’altrui sfera giuridica (Cass. 889/2006).

Trattandosi allora di un vero e proprio negozio giuridico avente

l’effetto di soddisfare, in modo diverso dallo schema predisposto

dall’art. 1218 c.c., l’interesse del creditore,anche l’adempimento

del terzo resta soggetto alla regola per cui il carattere oneroso o

gratuito dell’attribuzione patrimoniale che esso comporta non può

sfuggire alla regola che deve essere stabilito in riferimento alla

sua causa concreta. La quale rende palese l’irrilevanza

dell’indagine prospettata dal secondo indirizzo giurisprudenziale,

qui non accolto, con riguardo esclusivamente al rapporto bilaterale

debitore-creditore,senza percepire l’interferenza o l’affacciarsi

del terzo nel suddetto rapporto,che diviene necessariamente

trilaterale e comporta comunque la sovrapposizione di un nuovo più

complesso rapporto a quello originario; nè che solo per effetto di

essa e del conseguente coinvolgimento della sfera giuridica del

terzo è apprestato lo strumento di soddisfacimento del creditore,

che diviene oggetto della speciale disposizione della L. Fall., art.

64, ove non disveli, a livello causale,alcun vantaggio patrimoniale

o comunque una qualche utilità economico-giuridica per il solvens.

Ma la qualificazione dell’adempimento del terzo, in sede di azioni

revocatorie, non può limitarsi nemmeno ad una visuale incentrata sul

solo rapporto bilaterale terzo – creditore, e dunque sull’atto o

negozio in sè, nella sua connotazione causale astratta quale

funzione economico-sociale nella ricerca di un nesso diretto fra le

due eventuali controprestazioni di detti soggetti,come preteso

dall’orientamento opposto, sotto tale profilo pur esso inadeguato:

in quanto attraverso lo schema-base individuato dal legislatore

nell’art. 1180 c.c., le parti possono perseguire variegati interessi

meritevoli di tutela, ricorrendo anche ad un collegamento di atti o

negozi diversi, pure non coevi,ma susseguitisi nel tempo; il quale

permette, grazie a semplici connessioni economiche, di realizzare

uno scopo, a seconda dei casi, oneroso o gratuito, mediante

l’utilizzo di atti astrattamente a causa neutra, oppure onerosa o

anche gratuita,ma tutti egualmente strumentali e necessari alla

realizzazione del risultato antitetico. Ed al quale, dunque, deve

guardarsi per valutare se l’atto sia stato compiuto o meno, a titolo

gratuito. Consegue: 1) che variando la causa concreta che ha indotto

il terzo ad adempiere in luogo del debitore, dall’una o dall’altra

ragione discendono effetti o rimedi giuridici diversi, o diversi

rapporti giuridici susseguenti tra il terzo e il debitore; e deve

concludersi che nell’adempimento del terzo sono egualmente

configurabili gratuità o,per converso, onerosità; 2) che seppure la

tipizzazione legislativa dell’istituto avviene con riguardo

all’effetto del negozio (l’estinzione dell’obbligazione), la ragione

concreta, per la quale il terzo interviene nel rapporto creditoredebitore,

deve quindi essere necessariamente verificata caso per

caso dal giudice di merito; 3) che l’atto deve qualificarsi a titolo

gratuito,quando dall’operazione che esso conclude – sia essa a

struttura semplice perchè esaurita in un unico atto, sia a struttura

complessa, in quanto si componga di un collegamento di atti e di

negozi – il terzo non ne trae nessun concreto vantaggio patrimoniale

ed egli abbia inteso così recare un vantaggio al debitore; mentre la

ragione deve considerarsi onerosa tutte le volte che il terzo riceva

un vantaggio per questa sua prestazione dal debitore, dal creditore

o anche da altri, così da recuperare anche indirettamente la

prestazione adempiuta ed elidere quel pregiudizio, cui l’ordinamento

pone rimedio con l’inefficacia ex lege come esemplificativamente

avviene nell’ipotesi già esaminata da Cass. 5616/1992, -in cui si

possa allegare e provare l’esistenza di fatti idonei a individuare

un qualche vantaggio, sia pure mediato e indiretto (nel caso

individuato nella cessione di credito), della società poi fallita

con riguardo all’esecuzione della prestazione; nella surrogazione

nel diritto del creditore verso il suo debitore; nella conclusione

di un contratto a favore di terzo, in tale posizione dovendo porsi

il disponente; nell’esistenza di una delegazione di pagamento da

parte del debitore e così via.

In tal modo i concetti di “gratuità ed “economicità” vengono assunti

nel loro significato economico proprio, con spostamento della loro

qualificazione dal negozio all’attribuzione patrimoniale: per la

quale deve tenersi conto dell’interesse economico che si intende

realizzare,anche in via mediata,attraverso la complessa operazione

economica, da parte di chi apparentemente paga il debito altrui

senza corrispettivo: nell’ambito, quindi, del regolamento globale

degli interessi non limitato al singolo “atto di disposizione” da

lui compiuto.

Questi risultati trovano naturale applicazione proprio in relazione

all’individuazione del vantaggio per il terzo nell’ambito del gruppo

societario cui è stato riconosciuto in quest’ultimo decennio

gradualmente rilievo giuridico, e si saldano perfettamente con la

più recente giurisprudenza di questa Corte; la quale ha in

particolare riconosciuto la rilevanza, per la singola società del

gruppo, del soddisfacimento di un ben preciso interesse economico,

sia pure in ragione di un rapporto diverso, quale contropartita del

depauperamento diretto derivato alla società da un’operazione: per

tale ragione non considerata liberale. Ed ha statuito in termini

generali che al fine di verificare se un’operazione abbia comportato

o meno per la società che l’ha posta in essere un ingiustificato

depauperamento occorre tener conto della complessiva situazione che,

nell’ambito del gruppo, a quella società fa capo, potendo

l’eventuale pregiudizio economico che da essa sia direttamente

derivato aver trovato la sua contropartita in un altro rapporto e

l’atto presentarsi come preordinato al soddisfacimento di un ben

preciso interesse economico, sia pure mediato e indiretto (Cass. 673

9/2008; 12325/1998; 2001/1996).

Per cui le Sezioni Unite devono concludere che pur in presenza del

pagamento del debito di società collegate (ovvero del pagamento del

debito del socio da parte della società partecipata, come nella

fattispecie,© viceversa) può essere esclusa la gratuità del negozio,

quando la società disponente abbia comunque realizzato un suo

vantaggio economico: in quanto, ancorchè manchi il corrispettivo

immediato in termini di diretta sinallagmaticità, tuttavia può

verificarsi, da parte dell’impresa che svolga la sua attività

economica a monte, o a valle, di quella del disponente,

l’acquisizione di un’utilità economica in rapporto di causalità

mediata e indiretta con la prestazione eseguita; che tuttavia si

traduca in un vantaggio patrimoniale concreto. Altrimenti il terzo,

adempiendo ad un debito non proprio,si procura comunque una

diminuzione patrimoniale, costituente un nocumento, che restando

perciò stesso estraneo all’esercizio dell’impresa,diviene come tale,

immeritevole di tutela nell’ambito della disciplina dello statuto di

questa;ed a maggior ragione al lume della disposizione revocatoria

della L. Fall., art. 64.

8. Resta da esaminare come si ripartisca l’onere della prova nel

relativo giudizio:ricordando a tal fine, che secondo i principi

generali, di cui all’art. 2697 c.c., il curatore che agisce deve

provare l’integrazione della fattispecie della norma invocata,e

dunque, che l’atto – di cui vuole si dichiari l’inefficacia – sia a

titolo gratuito; ma che detta prova può essere offerta anche tramite

presunzioni.

Ed in relazione all’adempimento del terzo,tanto la dottrina,quanto

la giurisprudenza di merito hanno correttamente ritenuto che,

mancando nello schema causale tipico la controprestazione in favore

del disponente, si presume che l’atto sia stato compiuto

gratuitamente:pagando il terzo per definizione un debito non proprio

e non prevedendo la struttura del negozio alcuna attribuzione

patrimoniale a suo favore ; sicchè diviene onere del creditore

beneficiario provare con ogni mezzo che pure il disponente ha

ricevuto un vantaggio in seguito all’atto che ha posto in essere, in

quanto questo perseguiva un suo interesse economicamente

apprezzabile (Cfr. Cass. 4770/2007 in relazione alla concessione

della garanzia da parte del fideiussore; nonchè Cass. 26325/2006 in

tema di atto compiuto nell’interesse del gruppo sociale; Cass.

1831/2001 in tema di concessione di ipoteca a garanzia di debito

altrui).

Nel caso,invece,pur essendo pacifico che la soc. A, poi fallita

ricevuto il mutuo per cui è causa dall’B, attraverso le operazioni

bancarie avanti menzionate, ha attribuito la relativa somma alla

Banca popolare di C, creditrice dei propri soci per estinguerne i

debiti verso l’istituto di credito, dalla sentenza impugnata non

risulta che quest’ultimo abbia dimostrato o quanto meno allegato la

sussistenza di un interesse apprezzabile di detta società in ordine

all’atto dispositivo dalla stessa compiuto. Ed anzi la Corte

territoriale ha accertato senza specifiche e motivate contestazioni

al riguardo della banca creditrice, che la prova documentale

acquisita (sentenze penali, perizie, relazioni della curatela in

sede penale, ecc.) dimostrava che si era trattato di una vera e

propria distrazione dei fondi societari (di cui peraltro erano a

conoscenza la Banca ed i suoi funzionari) senza corrispettivo e con

pregiudizio del patrimonio immobiliare sociale, al solo fine di

ripianare i rapporti personali dei soci A.

Per cui il Collegio deve confermare il carattere gratuito nel caso

concreto dell’atto di disposizione e la sua assoggettabilità

all’inefficacia di cui alla norma menzionata; ed enunciare,infine,

il seguente principio di diritto: “In tema di revocatoria

fallimentare di atti a titolo gratuito, ai sensi della L. Fall.,

art. 64, la valutazione di gratuità od onerosità di un negozio va

compiuta con esclusivo riguardo alla causa concreta,costituita dallo

scopo pratico del negozio, e cioè dalla sintesi degli interessi che

lo stesso è concretamente diretto a realizzare quale funzione

individuale della singola e specifica negoziazione, al di la del

modello astratto utilizzato; per cui la relativa classificazione non

può più fondarsi sulla esistenza o meno di un rapporto

sinallagmatico e corrispettivo tra le prestazioni sul piano tipico

ed astratto,ma dipende necessariamente dall’apprezzamento

dell’interesse sotteso all’intera operazione da parte del solvens,

quale emerge dall’entità dell’attribuzione, dalla durata del

rapporto, dalla qualità dei soggetti e soprattutto dalla prospettiva

di subire un depauperamento collegato o non collegato ad un sia pur

indiretto guadagno o ad un risparmio di spesa. Pertanto,

nell’ipotesi di estinzione da parte del terzo, poi fallito, di

un’obbligazione preesistente cui egli sia estraneo, l’atto solutorio

può dirsi gratuito, agli effetti della L. Fall., art. 64, solo

quando dall’operazione che esso conclude – sia essa a struttura

semplice perchè esaurita in un unico atto, sia a struttura

complessa, in quanto si componga di un collegamento di atti e di

negozi- il terzo non ne trae nessun concreto vantaggio patrimoniale

ed egli abbia inteso così recare un vantaggio al debitore; mentre la

ragione deve considerarsi onerosa tutte le volte che il terzo riceva

un vantaggio per questa sua prestazione dal debitore, dal creditore

o anche da altri, così da recuperare anche indirettamente la

prestazione adempiuta ed elidere quel pregiudizio, cui l’ordinamento

pone rimedio con l’inefficacia ex lege”.

9. Deve, infine, respingersi anche il ricorso incidentale del

Fallimento,che si articola in due motivi,con i quali la Curatela,

deducendo violazione degli artt. 820, 1224 e 1282 c.c., nonchè art.

112 c.p.c., censura la decisione di appello: a) per avere

considerato nuova la richiesta di attribuzione degli interessi

legali,malgrado la stessa fosse compresa in quella di restituzione

di tutte le maggiori somme dovute per interessi corrisposti per i

depositi attivi;e comunque formulata nella memoria conclusionale

depositata in primo grado; b) per avere dichiarato di valuta il

proprio credito senza considerare la natura illecita dell’atto

revocato che doveva indurre la Corte ad attribuire e calcolare di

ufficio sia gli interessi legali,che la svalutazione monetaria.

Quanto a quest’ultimo profilo,infatti,la ricorrente pur

menzionandolo, non ha tenuto in alcun conto il principio più volte

enunciato da questa Corte, che in ipotesi di vittorioso esperimento

della revocatoria fallimentare relativa ad un pagamento eseguito dal

fallito nel “periodo sospetto”, l’obbligazione restitutoria

dell'”accipiens” soccombente in revocatoria ha natura di debito di

valuta e non di valore: atteso che l’atto posto in essere dal

fallito (che va tenuto distinto dalle pregresse vicende dalle quali

è derivato) è originariamente lecito e la sua inefficacia

sopravviene solo in esito alla sentenza di accoglimento della

revocatoria. Mentre in ordine al primo è sufficiente ricordare la

distinzione tra l’ipotesi in cui il giudice di merito incorra

nell’omesso esame di una domanda e quella in cui si censuri

l’interpretazione data alla domanda stessa, ritenendosi in essa

compresi, o esclusi, alcuni aspetti della controversia, base ad una

considerazione non condivisa dalla parte: poichè soltanto nel primo

caso si verte propriamente in tema di violazione dell’art. 112

c.p.c., denunciata dal Fallimento. La quale non ricorre nel caso

concreto, avendo la Corte di appello preso specificamente in esame

la sua richiesta di interessi legali sulle somme che la controparte

è stata condannata a restituire:ritenendola tuttavia infondata e

specificandone dettagliatamente le ragioni.

Pertanto le Sezioni Unite, devono ribadire: a) che gli interessi

sulla somma da restituirsi da parte del soccombente decorrono dalla

data della domanda giudiziale e che il risarcimento del maggior

danno conseguente al ritardo con cui sia stata restituita la somma

di denaro oggetto della revocatoria spetta solo ove l’attore alleghi

specificamente tale danno e dimostri di averlo subito (Cass.

14896/2009; 6991/2007; 887/2006; nonchè sez. un. 437/2000); b) che

fuori dell’ipotesi di interessi su una somma dovuta a titolo di

risarcimento del danno, i quali ne integrano una componente nascente

dal medesimo fatto generatore, gli interessi stessi, siano moratori,

corrispettivi o compensativi, hanno un fondamento autonomo rispetto

all’obbligazione pecuniaria cui accedono; e, pertanto, possono

essere attribuiti solo su espressa domanda della parte, che ne

indichi la fonte e la misura, in applicazione dei principi previsti

negli artt. 99 e 112 c.p.c., (Cass. 4423/2004); c) che la relativa

domanda non può essere avanzata per la prima volta nella comparsa

conclusionale; e che non può neppure ipotizzarsi un’accettazione del

contraddittorio ad opera della controparte, consentito soltanto fino

al momento della rimessione della causa al collegio per la

discussione.

Le spese del giudizio vanno gravate sulla Banca D. rimasta

soccombente e si liquidano in favore della Curatela come da

dispositivo.

P.Q.M.

La Corte, a sezioni unite riunisce i ricorsi e li rigetta; condanna

la ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in

favore della Curatela in complessivi Euro 12.200,00 di cui Euro

12.000 per onorario di difesa,oltre spese generali ed accessori come

per legge.

Così deciso in Roma, il 2 febbraio 2009.

Depositato in Cancelleria il 18 marzo 2010

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