Tribunale di S. Maria C.V., sez. fallimentare - Rel. Dongiacomo, Sentenza emessa nella causa civile 775/95 tra BN Commercio e Finanza s.p.a. e Fall. La Balena s.r.l. - Effetti del fallimento sui contratti di leasing

(Omissis)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La BN Commercio e Finanza s.p.a., con ricorso depositato in data 14/11/1994, proponeva opposizione avverso lo stato passivo del fallimento della La Balena s.r.l., dichiarato dall'intestato Tribunale in data 20/1/1994.
L'opponente esponeva di aver richiesto, in data 23/3/1994, l'ammissione al passivo fallimentare per l'importo di £. 302.251.621, in chirografo, sul fondamento di tre contratti di locazione finanziaria stipulati con la società fallita (nn. 24753, 24754, 24755) in data 17/9/1991, in ordine ai quali quest'ultima si era resa morosa nel pagamento dei relativi canoni; da qui la dichiarazione del 22/3/1993 di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa, contenuta nei predetti contratti, e la richiesta la restituzione dei beni concessi in leasing, nonché il pagamento del capitale, degli interessi e della penale, come consacrato nel decreto ingiuntivo n. 31/1994, concesso dal Presidente del Tribunale di Napoli in data 11/1/1994, ma notificato alla società debitrice dopo il suo fallimento, dichiarato con sentenza del 20/1/1994.
L'istante si doleva pertanto del provvedimento (comunicato dal curatore con raccomandata pervenutale il 29/10/1994) con il quale il G.D. aveva rigettato la domanda di ammissione al passivo sul rilievo dell'applicazione al caso di specie dell'art. 1526 c.c., osservando In contrario che, in considerazione della loro natura imprenditoriale, della strumentalità dei beni che ne sono stati l'oggetto nonché della loro durata corrispondente alla vita tecnico-economica di questi ultimi, i contratti stipulati con la società poi fallita devono essere qualificati come leasing di godimento, e non traslativi, con la conseguente applicazione, circa l'effetto risolutivo, dell'art. 1458 c.c., e non, come ritenuto invece dal G.D., dell'art. 1526 c.c..
Aggiungeva, poi, che non tutti i beni concessi in leasing sono stati rinvenuti dalla curatela in sede di inventario.
Infine, chiariva che l'equo indennizzo deve essere determinato in relazione ai beni come goduti dalla fallita società fino alla loro effettiva restituzione e con riferimento al presunto ricavo dalla rivendita degli stessi, se ancora utilizzabili.
Il Curatore del fallimento, senza costituirsi in giudizio, all'udienza del 24/6/1997, esprimeva parere sfavorevole all'accoglimento dell'opposizione, affermando l'applicabilità nella specie dell'art. 1526 c.c..
Senza alcuna attività istruttoria, precisate le conclusioni all'udienza del 4/5/1999, la causa veniva rimessa al collegio che, all'udienza pubblica del 1/10/1999, si riservava la decisione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
In via preliminare, va dichiarata la contumacia della curatela fallimentare che, pur se regolarmente convenuta, non si è ritualmente costituita in giudizio, neppure in ritardo.
Inoltre, va chiarito, pur se la questione relativa non è stata sollevata in giudizio, che l'opposizione proposta è senz'altro tempestiva.
Invero, a norma dell'art. 98 l. fall., l'opposizione allo stato passivo fallimentare deve essere proposta entro quindici giorni dal ricevimento della raccomandata con ricevuta di ritorno con la quale il curatore comunica all'istante il deposito dello stato passivo: nel caso di specie, come emerge dagli atti di causa, l'opponente ha ricevuto la predetta comunicazione in data 29/10/1994, mentre il ricorso introduttivo risulta depositato in cancelleria in data 14/11/1994, essendo stato il 13/11/1994 un giorno festivo (domenica), con conseguente applicazione dell'art. 155, ult. comma, c.p.c..
Quanto al merito, va innanzitutto osservato che l'opponente, in sede di comparsa conclusionale, ha formulato domande non del tutto coincidenti con quelle proposte nell'atto introduttivo e nel corso del giudizio: in particolare, mentre in sede di ricorso e di precisazione delle conclusioni, l'istante (come del resto già in sede di insinuazione tempestiva) ha chiesto l'ammissione al passivo per la somma di £. 302.251.621, pari ai canoni scaduti e non pagati ed agli interessi convenzionali fino alla data del fallimento (£. 61.873.243) ed all'indennità di risoluzione, come da prospetto agli atti (£. 240.378.378), ovvero, in via subordinata, e per la sola ipotesi in cui si ritenesse applicabile l'art. 1526 c.c., l'ammissione al passivo del diritto all'equo indennizzo, da determinarsi a mezzo di C.T.U., previa compensazione con il proprio obbligo restitutorio, in sede di comparsa conclusionale, il ricorrente, nel confermare la richiesta di ammissione per la somma di £. 302.251.621, secondo i titoli prima indicati (canoni scaduti e non pagati ed interessi fino al fallimento al tasso pattizio), ha domandato, in via subordinata, l'ammissione per £. 61.873.243, per i (soli) canoni scaduti e gli interessi convenzionali fino al fallimento, senza fare alcun riferimento al diritto all'equo indennizzo ex art. 1526 c.c..
Ciò significa che, pur confermando la domanda principale di ammissione al passivo per £. 302.251.621, a titolo di canoni scaduti, interessi convenzionali fino alla data del fallimento (£. 61.873.243) ed indennità di risoluzione (£. 240.378.378), l'opponente ha mutato la domanda subordinata, consistita dapprima nella sola richiesta di ammissione al passivo per il diritto all'equo indennizzo, previa compensazione con gli obblighi di restituzione dei canoni ricevuti, sul presupposto della qualificazione dei contratti allegati come leasing traslativi e la conseguente applicazione, in caso di risoluzione, dell'art. 1526 c.c., e poi nella sola istanza di insinuazione per i soli canoni scaduti e gli interessi convenzionali (e quindi senza l'indennità di risoluzione), sul diverso presupposto della qualificazione dei contratti predetti come leasing di godimento e la connessa applicazione, in ipotesi di risoluzione, dell'art. 1458, comma 2°, seconda ipotesi, c.c..
Ne deriva che, in difetto di espressa riproposizione, in sede di comparsa conclusionale, della domanda di ammissione al passivo per il diritto all'equo indennizzo, neppure in via subordinata, la relativa istanza deve considerarsi abbandonata, potendosi infatti ragionevolmente presumere (e senza con ciò violarne la funzione tipica ex art. 190 c.p.c.) che se il richiedente, in sede di comparsa conclusionale, non ha riformulato una determinata domanda, ciò vuol dire che egli ha insistito solo sulle deduzioni espressamente ribadite (cfr. Cass. n. 108/1997); del resto, la domanda di ammissione per il diritto all'equo indennizzo risulta formulata, sia pur in via subordinata, solo in sede di opposizione allo stato passivo, laddove il ricorso ex art. 98 l. fall. è utilizzabile solo per far valere, in sede di impugnazione, richieste già proposte in sede di insinuazione tempestiva: sono inammissibili, pertanto, domande nuove o più ampie (cfr. Trib. Torino 15/3/1996).
Inoltre, nessun rilievo può attribuirsi alla domanda formulata per la prima volta in sede di comparsa conclusionale (pur se quella proposta nel caso di specie è già contenuta nella stessa domanda principale), trattandosi di domanda inammissibile anche nel vigore del c.d. vecchio rito civile, applicabile alla presente causa in quanto introdotta prima del 30/4/1995, ai sensi dell'art. 90 l. n. 353/1990 (cfr. Cass. n. 982/1989).
Ciò significa che, essendo inammissibili tutte le domande proposte come subordinate, l'unica richiesta che il collegio deve prendere in considerazione è la domanda principale di ammissione al passivo per i canoni scaduti, interessi convenzionali fino al fallimento e indennità di risoluzione per £. 302.251.621.
Così delimitato l'ambito oggettivo della controversia, può esaminarsi il merito della (unica) domanda proposta.
Ciò richiede l'identificazione della natura giuridica dei contratti di leasing dedotti in giudizio e, quindi, della disciplina che li regola: in particolare, occorre stabilire se, in caso di risoluzione, trova applicazione l'art. 1458 c.c. ovvero l'art. 1526 c.c..
Il problema, come è noto, secondo un primo orientamento dei giudici di legittimità, è stato risolto nel ritenere applicabile al contratto di leasing, unitariamente considerato, le norme sul contratto in generale, con conseguente operatività, in caso di risoluzione, della norma dell'art. 1458, 1° comma, c.c., definitiva acquisizione al concedente dei canoni percetti ed inapplicabilità della disposizione dell'art. 1526 c.c., sia in via indiretta, che in via analogica (cfr. Cass. n. 5623/1988; 3023/1986; 6390/1983).
Siffatto orientamento non era stato, però, recepito da un consistente contrario indirizzo della giurisprudenza di merito e da una parte della dottrina.
I giudici di legittimità, attenti alle argomentazioni critiche svolte dall'indirizzo contrario a quello da essi manifestato, nonché alla evoluzione subìta dal nuovo modello contrattuale, con alcune sentenze pronunziate alla fine del 1989, hanno, da un canto, ribadito la validità dell'orientamento espresso in precedenza, ma, dall'altro, identificato nell'ambito del più ampio "genus" del leasing un tipo di contratto che si sottrae ai principi dianzi enunciati (Cass. n. 5570/89; n. 5572/89; n. 5573/89).
Successivamente sono intervenute ulteriori pronunce della Suprema Corte che hanno confermato e consolidato il nuovo orientamento, esaminando approfonditamente e sotto diverse angolazioni tutta la questione riproposta nel presente giudizio, delineando in modo risolutivo i caratteri e la disciplina della fattispecie in esame (Cass. n. 11614/1998, in Foro it. 1999, I, 2608; n. 12790/1997; n. 7169/1995; 8464/1995; n. 2743/1994; n. 1731/1994; sez. un. n. 65/1993; n. 7556/1992; n. 2083/1992; n. 6357/1991).
Il Collegio ritiene di dover aderire a tale orientamento, condividendo le argomentazioni che lo fondano e senza sia necessaria una loro rimeditazione, perché la società opponente non ha dedotto alcuna ragione nuova o non esaminata dai giudici di legittimità nelle pronunzie dianzi richiamate che possa indurre pur solo a dubitare della loro correttezza.
Pertanto, è sufficiente ricordare che la Corte regolatrice, all'esito delle ampie ed esaustive motivazioni svolte nelle succitate pronunzie, che qui devono intendersi integralmente richiamate e condivise, ha chiarito come "il leasing finanziario, partendo dalla fattispecie originaria e, per così dire, storica, ha finito per avere espansione in settori diversi, assumendo funzioni economiche distinte da quella iniziale", sostanziantesi in quella di finanziamento a scopo di godimento del bene (Cass. n. 5573/1989).
Accanto a questa figura di leasing c.d. "tradizionale" si è, infatti, sviluppata una seconda figura, definita anche "leasing traslativo", che "costituisce una deviazione o meglio un superamento dell'originaria locazione finanziaria" (Cass. n. 6357/1991), connotata dal costituire la vendita "un elemento caratteristico causale coessenziale con la funzione finanziaria" (Cass. sez. un. n. 65/1993, richiamando Cass. n. 5573/1989).
Le caratteristiche strutturali del leasing tradizionale o "di godimento" sono state, quindi, così identificate:
a) sotto il profilo causale, dalla funzione di finanziamento;
b) sotto il profilo dell'assetto degli interessi, nell'identificazione di quello del concedente nell'intento di realizzare un impiego remunerativo del capitale e di quello dell'utilizzatore "nell'ottenere non già la proprietà immediata del bene, bensì la disponibilità del bene stesso, senza esborso di capitali rilevanti, con la conseguente acquisizione del valore di consumazione economica e del potere di sfruttamento del bene, da lui stesso prescelto per le esigenze della sua impresa, fino alla pressoché totale obsolescenza di esso".
Pertanto, in tale figura il trasferimento di proprietà del bene è nella volontà delle parti meramente eventuale, se non addirittura irrilevante: le quote di canone sono determinate non in vista del trasferimento del bene, non incorporano, quindi, ratei di prezzo, ma "soltanto ratei del valore d'uso del bene dalle parti ragguagliato, nell'entità, all'impiego del capitale della società di leasing, oltre all'utile ed all'obsolescenza del bene".
Ciò significa che, alla scadenza del contratto il bene, a causa dell'obsolescenza tecnica, ha un valore pressoché nullo.
Il contratto è atipico, non ragguagliabile alla vendita ed alla locazione, è regolato dalle norme generali sui contratti, e quindi, dall'art. 1458,1° comma, 2^ ipotesi, c.c., e, sussistendo una perfetta corrispettività e sinallagmaticità tra le prestazioni delle parti durante lo svolgimento del rapporto, neppure si pone alcun problema di squilibrio in conseguenza del trattenimento di tutti i canoni percetti da parte del concedente.
Diversi sono, invece, gli elementi strutturali del c.d. "leasing traslativo" che presenta le seguenti caratteristiche:
a) la vendita del bene assume rilevanza causale essenziale, essendo il godimento concesso in vista della alienazione, pur se è comunque identificabile la funzione di finanziamento, perché il contratto consente all'imprenditore di acquisire il bene, nonostante egli non abbia capitali adeguati;
b) nell'assetto degli interessi delle parti, l'intento del concedente non differisce di molto da quello del leasing finanziario, ma si accentua la funzione garantistica del bene, mentre, invece, l'interesse dell'utilizzatore è quello di acquisire la proprietà del bene, e ciò perché, alla scadenza del contratto, il valore economico residuo del bene è di gran lunga superiore al prezzo di opzione: i ratei pagati scontano, infatti, non solo il valore di godimento, ma anche il valore del bene e ciascun canone sconta una quota di prezzo ed al termine del rapporto l'acquisto costituisce una "situazione di fatto necessitata per l'utilizzatore", proprio "avuto riguardo alla sproporzione tra (l'ancor notevole) valore residuo del bene ed il modesto prezzo di opzione", sempre che non voglia affrontare una perdita economica secca (cfr. Cass. n. 2743/1994 cit.); non sussistendo una corrispettività tra le prestazioni, si integra un evidente squilibrio se la società trattiene i canoni e la cosa resta anche in sua proprietà.
Delineata così la figura del leasing traslativo, nei suoi aspetti funzionali e strutturali, appaiono evidenti le analogie con la vendita con riserva di proprietà: "non esiste, infatti, una sensibile differenza nella funzione socio economica tra l'ipotesi in cui, nella previsione negoziale del pagamento del prezzo di un bene, le parti esprimano attualmente la volontà di acquisto e di vendita del bene, condizionando il verificarsi dell'effetto reale al pagamento dell'intero prezzo, e l'ipotesi in cui, sempre nella previsione negoziale del pagamento rateale del prezzo, le parti consentano all'utilizzatore di esprimere la volontà di acquisto del bene al termine del rapporto, nella consapevolezza che, senza concrete alternative, l'utilizzatore dovrà esprimere detta volontà acquisitiva" (Cass. n. 2743/994 cit.).
Questi ed altri elementi di analogia con il contratto di vendita con riserva di proprietà, concernenti la disciplina del rischio di perimento della cosa e dell'esercizio delle azioni che ordinariamente competono al proprietario della cosa, hanno consentito ai giudici di legittimità di affermare l'applicabilità al contratto di leasing traslativo della identica disciplina, ricollegata al dettato dell'art. 1526 c.c.: detta norma è, infatti, finalizzata ad evitare che, in seguito all'inadempimento del compratore, l'equilibrio contrattuale risulti alterato in suo danno e con indebito vantaggio del venditore.
La disposizione dell'art. 1526 c.c è, quindi, una norma imperativa, che esprime un principio generale di tutela di interessi omogenei a quelli disciplinati dal leasing traslativo, nonché di strumento di controllo negoziale dell'autonomia delle parti.
Naturalmente, l'individuazione dell'uno o dell'altro tipo di leasing non deve avvenire seguendo un criterio di pura e semplice valutazione del valore residuale del bene al momento dell'interruzione del rapporto, accertando se lo stesso superi oppure no l'entità dei canoni versati, assumendo invece rilievo l'originaria previsione di tali valori al momento della stipula dell'atto, non potendosi infatti escludere che la valutazione del bene eseguita al momento dell'interruzione del rapporto sia diversa rispetto a quella risalente al momento della conclusione dell'accordo, e ciò per le cause più disparate ed impreviste, inerenti, ad esempio, alla conservazione ed alla manutenzione del bene stesso (cfr. Cass. n. 8454/1992): occorre, pertanto, riferirsi alla volontà negoziale delle parti, e precisamente alla "previsione delle parti circa il valore residuale del bene al momento della naturale scadenza del contratto", nel senso che "... per la distinzione tra i due tipi contrattuali e la loro correlativa disciplina in caso di risoluzione, ciò che acquista rilievo è il fatto che la previsione di futura utilizzabilità del bene superi la durata del contratto" (Cass. n. 12790/1997 cit.; in tal senso anche Cass. n. 1731/1994 cit., che espressamente fa riferimento alla "effettiva volontà delle parti contraenti...tradotta nell'accordo negoziale con riguardo al prevedibile scarto finale tra valore del bene e prezzo di opzione", nonchè Cass. n. 11614/1998 cit., che si riferisce al "prevedibile valore residuo del bene alla scadenza del contratto e prezzo di opzione: perchè se il primo sopravanza in modo non indifferente il secondo, ciò sta a significare che i canoni hanno incluso per una parte il corrispettivo del valore d'uso e per un'altra il corrispettivo del valore di appartenenza").
Delineato in tal modo il quadro giuridico di riferimento, il problema si incentra nella identificare a quale delle due figure dianzi delineate siano riconducibili i contratti di leasing stipulati tra l'opponente e la società poi fallita.
Il problema va risolto alla luce delle peculiarità della fattispecie in esame e costituisce una "quaestio voluntatis".
A tal fine, peraltro, di sicuro e notevole ausilio è il riferimento alla griglia di indici identificati dalla Suprema Corte come elementi idonei a consentire la corretta qualificazione del contratto.
Tra essi, come giustamente affermato dall'opponente, sono di indubbia e particolare significatività quelli concernenti la qualità dei contraenti e l'oggetto del contratto.
La funzione di finanziamento è, infatti, apprezzabile in modo incontrovertibile nel caso l'utilizzatore sia un imprenditore, interessato ad acquisire la disponibilità di un bene strumentale, senza impiegare i capitali necessari per l'acquisto.
Del resto, a tale acquisto neppure è interessato, perché l'obsolescenza tecnologica alla quale è soggetto il bene lo rende inidoneo ad essere proficuamente utilizzato nel processo produttivo alla scadenza del contratto.
La funzione traslativa emerge, invece, con chiara evidenza nel caso l'utilizzatore non sia un imprenditore ed il contratto ha ad oggetto beni standardizzati e di consumo.
Pertanto, la qualità delle parti e l'oggetto del contratto (perché non consistente in un bene strumentale alla conduzione imprenditoriale, ma in un bene standardizzato e di consumo) costituiscono i preliminari, e forse più inequivoci elementi in grado di consentire l'agevole qualificazione del contratto.
Siffatti indici, se pur importanti, ancora non sono però - a giudizio del Tribunale - esaustivi per una corretta esegesi degli atti negoziali dedotti in giudizio: invero, i beni strumentali non sono affatto sempre necessariamente caratterizzati da una vita economica e tecnologica così effimera da far ritenere che essi finiscano con il perdere ogni reale valore di utilizzo nel più o meno breve arco di tempo coincidente con la durata del contratto; inoltre, sovente, per la considerazione da ultimo svolta, ma anche per la mancanza dei capitali necessari a consentire l'immediato acquisto del bene, anche l'imprenditore si determina alla stipulazione del contratto di leasing, ma avendo di mira l'acquisizione definitiva del bene.
Dunque, è necessario, come già prima rilevato, avere riguardo alla specifica peculiarità del bene strumentale, accertando se esso si consumi (economicamente e tecnologicamente) alla scadenza del contratto o se, invece, abbia un residuo valore, significativamente eccedente il prezzo di opzione: in tale ultima ipotesi, infatti, non può non trasparire la volontà delle parti volta alla vendita ed all'acquisto del bene, perché la divergenza tra valore residuale e prezzo d'opzione non è altrimenti giustificabile che con la considerazione che i canoni pagati incorporano anche ratei di prezzo.
Tale accertamento è agevolato poi da ulteriori indici, che sono espressivi della originaria volontà di privilegiare il trasferimento del bene e puntualmente identificati in:
a) previsione della facoltà dell'utilizzatore di chiedere, anche tacitamente, la proroga del rapporto;
b) obbligo dell'utilizzatore di consegnare il bene in buono stato di manutenzione e di funzionamento.
Trattasi, infatti, di circostanze espressive della consapevolezza delle parti in ordine alla mancata consumazione del bene e dell'avere essi alla scadenza del contratto un significativo valore residuo.
L'equilibrio tra le prestazioni è, quindi, assicurato solo dall'acquisto del bene da parte dell'utilizzatore.
L'applicazione degli indici così delineati consente agevolmente di affermare che i contratti in esame sono riconducibili alla figura del c.d. leasing traslativo (con conseguente applicabilità dell'art. 1526 c.c., trattandosi di contratti risolti dalla società concedente con la dichiarazione di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa in essi contenuta, comunicata alla società poi fallita in data 22/9/1992), a nulla rilevando la qualità dell'utilizzatore (un imprenditore) e dei beni oggetto dei contratti (beni strumentali all'impresa), perché, come si è detto, sono indici sì rilevanti, ma non esaustivi al fine della corretta esegesi degli atti in questione.
In tal senso depone, innanzitutto, la considerazione della natura dei beni che ne sono stati l'oggetto, e cioè, tra l'altro, diversi banchi frigorifero e bilance, un impianto frigorifero centralizzato (contratto n. 24753), un p.c. con monitor, stampante e software, due misuratori fiscali e due scanner metrologici (contratto n. 24754), un ducato FIAT (contratto n. 24755): trattasi di beni per i quali nozioni di comune esperienza (art. 115, comma 2°, c.p.c.) portano ad escludere che rientrino tra quelli destinati a consumarsi economicamente e tecnologicamente nell'arco della durata naturale del contratto, e cioè, nella specie, cinque anni per i primi due, e tre anni per il terzo, e ciò specie se si tien conto dell'irrisorio prezzo di opzione, contrattualmente previsto, rispettivamente, in £. 1.900.000, £. 220.000 e £. 205.882.
A fronte di tali circostanze, è difficile negare che le parti avessero previsto, al momento della stipula dei contratti in esame, che, alla loro naturale scadenza, l'acquisto dei beni concessi in leasing da parte dell'utilizzatore sarebbe stata per lo stesso una scelta formalmente libera, ma sostanzialmente necessitata, a meno di non voler subire una perdita economica secca.
Inoltre, siffatta conclusione è confortata dalla ricorrenza di ulteriori indici quali la previsione della facoltà di proroga, anche tacita, del contratto e l'obbligo dell'utilizzatore di restituzione delle cose locate "nello stato medesimo in cui le ha ricevute salva la normale usura derivante dall'uso delle cose in conformità del contratto" (art. 14): dette clausole sono, infatti, chiaramente espressive della consapevolezza del perdurante valore dei beni alla scadenza del contratto, della sua palese eccedenza rispetto al prezzo d'opzione e della coessenzialità al contratto della causa di trasferimento.
Dalla ritenuta configurabilità dei contratti dedotti in giudizio come di leasing traslativo consegue l'applicabilità al caso di specie della norma dell'art. 1526 c.c..
Infatti, i contratti in esame, come dedotto incontestatamente dall'opponente, si sono risolti di diritto prima della dichiarazione di fallimento della società utilizzatrice in conseguenza della dichiarazione con la quale, in data 22/9/1993, la concedente ha comunicato di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa in essa contenuti, a causa della morosità nel pagamento dei canoni pattuiti.
Ne deriva che, a norma dell'art. 1526, comma 1°, c.c., essendo derivata la risoluzione del contratto dall'inadempimento del compratore, "il venditore deve restituire le rate riscosse...": ora, nella specie, se da un lato tale norma non può comportare la condanna della società concedente alla restituzione dei canoni percepiti, difettando una domanda riconvenzionale in tal senso della curatela convenuta, pur se proponibile anche nel giudizio ex art. 98 l. fall. (T. Genova 22.12.1983; T. Milano 21.3.83), dall'altro lato determina quanto meno che l'opponente non può essere ammesso al passivo per i canoni scaduti e non pagati e per gli interessi contrattuali calcolati fino alla data del fallimento, non trovando applicazione, come si è detto, l'art. 1458, comma 1°, c.c., nella parte in cui sancisce l'irretroattività della risoluzione dei contratti a prestazione continuata (cfr. Cass. n. 5573/1989: nel caso di risoluzione di un leasing di godimento, alla società concedente spetta il diritto di credito ai canoni maturati fino alla dichiarazione di fallimento, oltre alla restituzione dei beni, mentre nel caso di risoluzione di un leasing traslativo, alla società concedente compete, oltre alla restituzione dei beni, soltanto il diritto all'equo indennizzo, compensabile con l'obbligo alla restituzione dei canoni eventualmente percepiti).
La norma dell'art. 1526 c.c. fa, peraltro, espressamente salvo il diritto all'equo compenso per l'uso della cosa, oltre al risarcimento dei danni, ed, al secondo comma, stabilisce che "qualora si sia convenuto che le rate pagate restino acquisite al venditore a titolo di indennità, il giudice, secondo le circostanze, può ridurre l'indennità convenuta".
Nella specie, l'opponente ha di fatto abbandonato la domanda di ammissione al passivo per il diritto all'equo indennizzo, e non ha proposto, almeno in questo giudizio, la domanda di restituzione dei beni rinvenuti ovvero di ammissione del credito al controvalore pecuniario di quelli non rinvenuti in sede di inventario, proponendo, invece, la domanda di insinuazione al passivo (anche) per l'indennità di risoluzione dei contratti, per l'ammontare complessivo di £. 240.378.378, come da clausola negoziale in tal senso (art 13).
Il problema è allora quello del diritto della concedente all'ammissione al passivo per il risarcimento dei danni, nella misura contrattualmente prevista, a fronte della risoluzione di diritto dei contratti stipulati, quale conseguenza della clausola risolutiva espressa in essi contenuta, e della dichiarazione di volersene avvalere resa dalla concedente prima del fallimento dell'utilizzatrice.
La risposta deve essere positiva: il contraente adempiente ha senz'altro acquisito il diritto alla risoluzione prima del fallimento, ed il connesso diritto ai danni subìti.
Infatti, in caso di previsione della clausola risolutiva espressa, quando il contraente "in bonis" se ne sia avvalso prima del fallimento, il contratto deve ritenersi già risolto alla data di apertura della procedura concorsuale (Cass. n. 6713/1982), tant'è che la relativa pronunzia non ha natura costitutiva, ma meramente dichiarativa dell'avvenuta risoluzione.
Ne consegue che il diritto al risarcimento dei danni maturati prima del fallimento deve ritenersi acquisito (Cass. n. 2826/1979), con esclusione della sua natura postfallimentare.
L'intervenuto fallimento e l'inderogabilità del rito della verifica per l'accertamento dei crediti nei confronti della massa, esteso anche alle azioni di accertamento indefettibilmente preordinate alla determinazione del danno, comportano l'obbligo della domanda ex art. 93 l. fall. ovvero, in sede di opposizione, del ricorso ex art. 98 l. fall..
In caso di sua proposizione anteriormente al fallimento, il meccanismo identificato per conservarne l'effetto introduttivo è stato identificato dai giudici di legittimità nella riassunzione della medesima in sede fallimentare (cfr. Cass. n. 12396/1998; n. 828/1983; n. 558/1962).
Nella specie, è agevole riscontrare che la ricorrente si era avvalsa della clausola risolutiva espressa (e fondatamente, in conseguenza dell'incontestata morosità nel pagamento dei canoni da parte della società poi fallita), prima del fallimento: ed infatti, prima del 20/1/1994, data del fallimento della La Balena s.r.l., la BN Commercio e Finanza s.p.a. ha iniziato contro la società utilizzatrice il giudizio monitorio (proprio sul presupposto dell'intervenuta risoluzione di diritto dei contratti stipulati), ottenendone la condanna al pagamento (tra l'altro, dei danni convenzionalmente determinati) con un decreto ingiuntivo notificato alla debitrice dopo la sentenza di fallimento e quindi alla massa dei creditori inopponibile, ed ha, quindi, riassunto il giudizio in sede fallimentare, proponendo prima la domanda ex art. 93 l. fall. e poi il ricorso ex art. 98 l. fall..
Ciò premesso, va osservato che le parti hanno quantificato l'indennità di risoluzione facendo riferimento al valore residuo dei beni locati al momento della risoluzione ed al 50 % dei canoni a scadere (v. prospetto depositato agli atti).
Il problema è allora quello della sua eccessiva onerosità o meno.
Infatti, come si è detto, la norma dell'art. 1526, comma 2°, c.c. dispone che, se le parti prevedono, in caso di risoluzione del contratto, il diritto del concedente a trattenere le rate ricevute a titolo di indennità, il giudice può ridurre l'indennità convenuta.
Nella specie, tale norma non appare applicabile, posto che l'indennità di risoluzione fissata dalle parti non fa riferimento alle rate pagate dall'utilizzatrice ed al relativo trattenimento, ma bensì, come si è detto, al valore residuo dei beni al momento della risoluzione ed al 50 % dei canoni a scadere.
Si applica, pertanto, la norma generale dell'art. 1384 c.c., che pure, in materia di clausola penale, dispone che il giudice può ridurla equitativamente (e si ritiene anche di ufficio), quando la prestazione è stata parzialmente eseguita ovvero quando la penale è manifestamente eccessiva, avendo sempre riguardo all'interesse del creditore all'adempimento.
Nella specie, l'indennità di risoluzione prevista a titolo di penale dalle parti contraenti risulta composta, come si è detto, dal valore residuo dei beni locati al momento della risoluzione e dal 50 % dei canoni a scadere.
A giudizio del collegio, la penale così pattuita va ridotta, non solo perché la società poi fallita ha parzialmente adempiuto alla propria obbligazione, pagando una parte dei canoni dovuti, ma anche perché la stessa appare manifestamente eccessiva, se solo si considera che la società concedente, in conseguente della risoluzione, ha sia diritto alla restituzione dei beni (ovvero, in mancanza, al loro controvalore in denaro), che quello all'equo indennizzo per l'uso della cosa da parte dell'utilizzatore, con la conseguenza che (indipendentemente dal fatto che tali diritti siano stati esercitati o meno, in questo ovvero in altro processo), ove mai l'indennità così come quantificata dalle parti fosse riconosciuta nella misura pattuita e richiesta, l'odierna ricorrente finirebbe per ricevere due volte, e senza alcuna giustificazione, la stessa attribuzione patrimoniale, prima quale diritto alla restituzione in natura dei beni locati (e/o al loro controvalore pecuniario), oltre all'equo compenso per l'uso effettuatone medio tempore, e poi quale componente del diritto all'indennità di risoluzione.
Del resto, l'interesse della società concedente leso dall'inadempimento dell'utilizzatore non giustifica la reintegrazione per equivalente nella misura convenuta, atteso che la stessa, in conseguenza della risoluzione, riceve (ovvero ha il diritto di ricevere) un'integrale reintegrazione patrimoniale, mediante il diritto alla restituzione dei beni (od al loro controvalore pecuniario) ed il diritto all'equo indennizzo per l'uso ed il deterioramento subito: in pratica, la concedente, mediante i diritti riconosciutigli dalla legge in caso di risoluzione del contratto ex art. 1526, comma 1°, c.c. (diritto alla restituzione dei beni e diritto all'equo indennizzo), consegue, in natura ed in denaro, un'attribuzione patrimoniale almeno pecuniariamente corrispondente al valore dei beni locati al momento della stipula del contratto.
In definitiva, l'indennità (e cioè la penale) prevista dalle parti va ridotta, e tale riduzione va rapportata alla parte rappresentata dal controvalore dei beni locati.
Pertanto, l'indennità va equitativamente riconosciuta solo per il residuo, e cioè per la somma corrispondente al 50 % dei canoni a scadere, e cioè, come è dato desumere dal prospetto allegato, per £. 93.221.000, che è, pertanto, la somma per cui l'opponente va ammessa allo stato passivo del fallimento resistente, in chirografo.


 

 

 

 

 











 

 

 


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