Corte di Cassazione, 10 marzo 2001 n. 3551, I dipendenti dell´impresa possono ottenere dalla p.a. appaltante i compensi non pagati dall´appaltatore, l´articolo 1676 del codice civile si applica anche agli appalti di lavori pubblici


Secondo la presente sentenza, i lavoratori di un impresa , possono conseguire dall'Amministrazione Appaltante, quanto loro spettante e non pagato dall'Appaltatore fino alla scadenza del debito che il committente ha verso l'appaltatore.
La corte di Cassazione , ha stabilito che l'articolo 1676 del codice civile va applicato anche negli appalti di lavori pubblici, tale applicazione trova riscontro dall'art. 13 del Nuovo capitolato generale d'appalto Approvato con D.Min. n. 145 del 2000, dove stabilisce che l'amministrazione può pagare direttamente quanto spettante agli operai da parte dell'appaltatore non corrisposto alle previste scadenze.


(Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza 10 marzo 2001, n. 3551– Ianniruberto, Presidente – Prestipino, Relatore)

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE - Sezione Lavoro
Composta dagli Illi.mi Signori Magistrati: Dott. Giuseppe Ianniruberto, Presidente Dott. Giovanni Prestipino, Consigliere, Relatore Dott. Alberto Spanò, Consigliere Dott. Natale Capitanio, Consigliere Dott. Raffaele Foglia, Consigliere
ha pronunciato la seguente sentenza n. 3559 depositata il 10.03.2001 sul ricorso n. 6816/2000 proposto da FALLIMENTO della I. s.p.a., in persona del curatore, elettivamente domiciliato in Roma, ... presso lo studio dell'Avv. F.P., che lo rappresenta e difende per procura speciale a margine del ricorso per cassazione, ricorrente,
contro
S.P., Z.B., M.R., I.R., P.L., T.M., L.F., S.M., V.G., S.S., elettivamente domiciliate in Roma, presso lo studio dell'Avv. L.M., che le rappresenta e difende per procura speciale a margine del controricorso, controricorrenti
e contro V.A.M., ed altri, Intimati,
e nei confronti di MINISTERO DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, per legge rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui Uffici in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, domicilia pure per legge. controricorrente
e sul ricorso n. 9893/2000 proposto da MINISTERO DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, come sopra per legge rappresentato, difeso e domiciliato, ricorrente incidentale
contro S.S., ed altri, Intimati
nei confronti di FALLIMENTO della I. s.p.a., intimato,
per l'annullamento della sentenza del Tribunale di Roma n. 25314 del 30.11.1999 (R.G. n. 48865/96).
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18.12.2000 dal Consigliere Relatore Dott. Giovanni Prestipino; Sentiti l'Avv. F.P. per il fallimento e l'Avv. L.M. per le lavoratrici resistenti; Sentito il P.M., nella persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Pietro Abbritti, che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.
Svolgimento del processo
Con ricorso del 31 luglio 1995 P.S. ed altri ventisei lavoratori, convenivano davanti al Pretore del lavoro di Roma la I. s.p.a., il Ministero delle Finanze e il CESID-Centro Servizi Imposte Dirette e, premesso che erano stati dipendenti della suddetta società e che con provvedimento del 20 luglio 1995 era stato dal medesimo Pretore autorizzato, a garanzia di crediti da essi vantati (per retribuzioni, trattamento di fine rapporto ed altri emolumenti inerenti al rapporto di lavoro), un sequestro conservativo fino alla concorrenza della somma di Lire 350.000.000 delle somme dovute dal Ministero alla medesima società in relazione ad un contratto di appalto di pulizie stipulato fra le parti, chiedevano che i convenuti - la prima quale datrice di lavoro e gli altri due quali committenti della società appaltatrice, ai sensi dell'art. 1676 c.c. - fossero condannati a pagare loro le somme per ciascuno di essi indicate, con interessi legali e rivalutazione monetaria.
Rimasti contumaci i convenuti e assunta la prova testimoniale dedotta dai ricorrenti, il Pretore con sentenza del 26 settembre 1996 condannava la società I. s.p.a. e il Ministero delle Finanze a pagare, in solido, ai lavoratori le somme indicate nel ricorso; la domanda proposta nei confronti del CESID veniva invece disattesa, per essere il Centro privo di autonoma soggettività giuridica.
Essendo stato nel frattempo dichiarato il fallimento della società I. s.p.a. (con sentenza del 21 marzo 1996), la pronuncia emessa dal Pretore veniva impugnata sia dal Ministero delle Finanze che dal curatore del fallimento.
Instauratosi il contraddittorio, il Tribunale di Roma, con sentenza del 30 novembre 1999, in parziale riforma della decisione impugnata "precisava in Lire 352.431.335 la somma massima dovuta dal Ministero" e dichiarava l'improcedibilità della domanda proposta dai lavoratori contro il fallimento.
Il giudice di appello osservava:
1) che l'azione diretta dei lavoratori contro il committente dell'appaltatore-datore di lavoro, prevista dall'art. 1676 c.c., è sottratta alle vicende del rapporto di appalto perché compete ai suddetti lavoratori in base ad un titolo proprio, con la conseguenza che la stessa non é preclusa dalla dichiarazione di fallimento dell'appaltatore; 2) che l'intervenuta dichiarazione di fallimento della società I. s.p.a. non poteva avere conseguenze sul sequestro, a suo tempo autorizzato dal Pretore di Roma, delle somme dovute alla società dal Ministero delle Finanze, sia perché nell'attuale ordinamento processuale non è più previsto l'istituto della convalida, sia perché il sequestro perde efficacia nel momento in cui il creditore ha ottenuto una sentenza esecutiva per legge; 3) che il Ministero non poteva invocare l'art. 351 della l. 20 marzo 1855 n. 2249 all. F, non essendo questa disposizione di legge applicabile alla domanda proposta in base all'art. 1676 c.c. e, inoltre, avendo il medesimo Ministero posto in essere un appalto per la cui esecuzione non era stata prevista l'attività di collaudo; 4) che risultava provato, per mezzo dei documenti prodotti in giudizio dallo stesso Ministero delle Finanze, il contratto di appalto stipulato fra quest'ultimo e la società I. s.p.a.; 5) che la sentenza di condanna nei confronti del Ministero non poteva essere subordinata all'espletamento delle procedure contabili, dato che, altrimenti, l'amministrazione sarebbe stata arbitra di stabilire l'epoca e, anche, l'ammontare del pagamento; 6) che dai documenti acquisiti al giudizio e dalla prova testimoniale era risultato che tutti i lavoratori, che avevano promosso l'azione contro il Ministero delle Finanze, avevano svolto attività lavorativa presso i locali del medesimo Ministero in esecuzione del contratto di appalto stipulato dalla società loro datrice di lavoro, mentre nessuna censura era stata mossa alla decisione con la quale il primo giudice aveva determinato le somme spettanti a ciascun lavoratore; 7) che l'eccezione di compensazione era stata tardivamente ed inammissibilmente dedotta dal Ministero delle Finanze solamente con l'atto di appello; 8) che, non avendo il primo giudice a ciò provveduto, era necessario precisare che "l'importo massimo al cui pagamento era tenuta l'amministrazione", come dalla stessa indicato, doveva essere determinato nella somma di Lire 352.431.335.
Questa sentenza è stata impugnata per cassazione dal fallimento della società I. s.p.a. con tre diversi motivi e dal Ministero delle Finanze con due distinti e complessi motivi.
Hanno resistito con controricorso al ricorso proposto dal fallimento P.S., ed altri. Gli altri lavoratori non hanno svolto attività difensiva. Il fallimento della società I. s.p.a. e le controricorrenti hanno depositato una memoria.
Motivi della decisione
Va preliminarmente disposta, ai sensi dell'art. 335 c.p.c., la riunione del ricorso proposto dal Ministero delle Finanze a quello formulato dal fallimento della società I. s.p.a., trattandosi di impugnazioni contro la stessa sentenza. Sempre in via preliminare, poi, va rilevato che il Ministero delle Finanze ha proposto il ricorso non già contro l'impugnante principale (il fallimento della società I. s.p.a.), ma contro i lavoratori: trattasi, quindi, di impugnazione incidentale autonoma, proposta, ai sensi dell'art. 333 c.p.c., contro soggetti diversi da quello che aveva formulato il ricorso principale e ammissibile in quanto notificata nel rispetto dei termini previsti dalla legge.
Ciò premesso, per ragioni di connessione vanno esaminati i motivi primo e secondo dell'impugnazione proposta dal fallimento e il primo motivo (indicato con i numeri 1 e 2) del ricorso formulato dal Ministero.
Entrambi i ricorrenti, nel denunciare la violazione e la falsa applicazione dell'art. 1676 c.c., in relazione all'art. 51 della legge fallimentare, nonché vizi di motivazione su punti decisivi della controversia con riferimento all'art. 360, primo comma n. 3 e 5, c.p.c., lamentano che il Tribunale non abbia dichiarato, a causa dell'intervenuto fallimento della società I. s.p.a., l'improcedibilità dell'azione promossa dai lavoratori contro il Ministero delle Finanze. I due ricorrenti, al riguardo, deducono:
a) che il giudice di appello, nell'affermare che l'azione di cui all'art. 1676 c.c. è autonoma e diretta e si sottrae alle vicende economiche dell'appalto, non ha tenuto conto del principio generale secondo cui, una volta aperto il procedimento fallimentare, deve essere attuato il concorso di tutti i creditori; b) che il Tribunale, nell'aderire alla interpretazione data alla disposizione di legge dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 4051 del 10 luglio 1984, non ha considerato gli effetti che, in base a tale interpretazione, si produrrebbero in capo agli altri creditori della società I. s.p.a., pure ammessi al passivo del fallimento, i quali vedrebbero sottratta all'esecuzione concorsuale una parte del patrimonio della società; c) che, in particolare, rispetto agli attuali intimati (i quali vedrebbero soddisfatte le loro pretese con la somma dovuta alla società I. s.p.a. dal Ministero delle Finanze), riceverebbero una minore tutela, e quindi una evidente disparità di trattamento, sia coloro che non hanno la qualità di lavoratori subordinati, sia coloro che, pur potendo basare la loro pretesa sul rapporto di lavoro instaurato con la società I. s.p.a., non hanno tuttavia proposto alcuna azione contro il Ministero (e, fra questi ultimi, vi sono tanto quelli che non potevano far valere alcun titolo nei confronti del Ministero per non avere mai svolto attività lavorativa in esecuzione del contratto di appalto per cui è causa, quanto quelli che, pur essendovi legittimati, erano rimasti inerti); d) che, pur essendo esatta la premessa dalla quale la decisione impugnata ha preso le mosse, e cioè che l'azione prevista dall'art. 1676 c.c. è diretta e, quindi, diversa dall'azione surrogatoria - in quanto i lavoratori agiscono in nome proprio, nel proprio interesse e nell'esercizio di un diritto proprio (tesi, codesta, sostenuta nella suddetta sentenza della Corte di Cassazione n. 4051 del 10 luglio 1884) - tuttavia è errata la conclusione che ne è stata tratta, dato che l'azione non può sopravvivere al fallimento dell'appaltatore-datore di lavoro per il semplice fatto che i lavoratori, i quali possono agire, in base ad uno ius exigendi in rem propriam, solamente fino a concorrenza del debito del committente verso l'appaltatore e che sono esposti alle medesime eccezioni proponibili contro l'appaltatore, non vantano alcun credito direttamente nei confronti del suddetto committente; e) che, venendo il credito dei lavoratori soddisfatto mediante l'attribuzione ai medesimi del credito dell'appaltatore, con una modificazione soggettiva del rapporto obbligatorio inizialmente sorto fra gli altri due soggetti, l'azione, nonostante sia esercitata nelle forme del processo di cognizione, ha intrinseca natura esecutiva, giacché solamente per mezzo del processo viene soddisfatto l'interesse dei dipendenti con la contestuale estinzione del credito dell'appaltatore verso il committente e con il sorgere di un vincolo di solidarietà passiva fra questi due soggetti verso i lavoratori; f) che, pertanto, essendo lo strumento predisposto dalla legge identico al pignoramento eseguito dai lavoratori sul credito vantato dall'appaltatore nei confronti del committente, pure identici debbono considerarsi gli effetti, derivando sia dalla sentenza che conclude il giudizio promosso dai lavoratori ex art. 1676 c.c., sia dall'assegnazione, costituente il provvedimento finale del procedimento esecutivo, il soddisfacimento delle ragioni dei lavoratori; g) che, d'altra parte, la ratio della disposizione di cui al suddetto art. 1676 c.c. risiede nella esigenza di attribuire ai dipendenti dell'appaltatore un meccanismo più rapido per il soddisfacimento delle pretese vantate verso il datore di lavoro, dato che don tale meccanismo è consentita la contemporaneità, in un unico processo, fra l'accertamento del credito dei lavoratori e l'esecuzione, con la già rilevata sostanziale identità dei due risultati finali; h) che, per queste ragioni, si deve ritenere che l'azione ex art. 1676 c.c., inerente ad un elemento esistente nel patrimonio del datore di lavoro al momento della dichiarazione di fallimento del medesimo, abbia la medesima natura esecutivo- satisfattiva del pignoramento presso terzi, con la conseguenza, come si deve parimenti ritenere, che dall'apertura del procedimento fallimentare, nel quale deve essere garantita la par condicio fra tutti i creditori, deriva l'improcedibilità sia dell'una che dell'altra azione; i) che, se non si dovesse condividere questa conclusione e si volesse seguire l'interpretazione data alla norma dal Tribunale (nonché dalla suddetta sentenza n. 4051 del 10 luglio 1984 della Corte di Cassazione), la norma stessa sarebbe costituzionalmente illegittima, per contrasto con l'art. 3 della Costituzione, a causa della diversa tutela che deriverebbe ai dipendenti dell'appaltatore a seconda che costoro o agiscano verso il committente ex art. 1676 c.c. o tentino di realizzare il loro credito, portato da un titolo esecutivo, procedendo al pignoramento presso terzi del credito dell'appaltatore o procedano al sequestro conservativo di tale credito; l) che, al riguardo, sarebbe manifesta l'irrazionalità della disposizione perché, a seconda dello strumento prescelto in relazione alle individuali posizioni dei singoli lavoratori, si determinerebbe una tutela mero incisiva per coloro che vantano crediti certi verso l'appaltatore (e che iniziano un'azione esecutiva sulla base di tale posizione) rispetto a quelli che sono titolari di un credito non ancora accertato, i quali, agendo nei confronti del committente, vedono realizzata in pieno la loro pretesa, completa di rivalutazione monetaria fino al pagamento e non fino al giorno del deposito dello stato passivo; m) che, infine, secondo il Ministero delle Finanze, alcuni fra gli attuali intimati (R.G., A.M.T., A.V., R.I., F.L. e F.M.) "non avevano mai prestato attività di servizio di pulizia nei locali di proprietà, dell'Amministrazione finanziaria".
A parte la censura indicata con la lettera m) - che è pure infondata, ma che pone una diversa questione tutte le altre censure, che soprattutto dalla difesa del fallimento sono state esposte con argomenti di rimarchevole pregio sul piano formale, riflettono tesi dottrinarie, minoritarie in ordine alla interpretazione dell'art. 1676 c.c., che la Corte non ritiene di condividere, intendendo, viceversa, aderire alle ragioni addotte, a fondamento della opposta interpretazione, sia dalla prevalente dottrina, sia dalla giurisprudenza.
L'art. 1676 c.c. - il quale, come è stato rilevato in dottrina, trae origine da norme dettate nel vecchio ordinamento francese e poi trasfuse, prima, nel codice napoleonico del 1805 e, poi, nel codice civile del 1865 (art. 1645, che approntava una tutela a favore dei soli prestatori d'opera manuale) - stabilisce che coloro che hanno svolto attività lavorativa alle dipendenze dell'appaltatore nell'esecuzione di un'opera o nella prestazione di un servizio dal medesimo acquisiti possono agire contro il committente "per conseguire quanto è loro dovuto, fino alla concorrenza del debito che il committente ha verso l'appaltatore al tempo in cui essi propongono la domanda".
Dal contenuto della norma si evince che elementi dell'azione sono:
1) l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato (art. 2094 c.c.) alle dipendenze di un imprenditore che, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, esercita urla attività diretta al compimento di un'opera o di un servizio nei confronti di un determinato committente verso un corrispettivo (art. 1655 c.c.); 2) l'esecuzione della prestazione lavorativa per il rompimento di quella particolare opera o di quello specifico servizio commissionati da quel determinato committente; 3) l'esistenza di un credito di lavoro in capo ai suddetti lavoratori, inadempiuto da parte dell'appaltatore-datore di lavoro (artt. 2099 e segg. c.c.); 4) in pari tempo, l'esistenza di un credito dell'appaltatore verso il committente in relazione al compimento dell'opera o del servizio commissionatigli (art. 1657 c.c.).
Ricorrendo tutti questi elementi, la legge prevede che i lavoratori, mediante l'esercizio di un'azione contro il committente, possono conseguire direttamente da quest'ultimo la minor somma fra quella che è loro dovuta in conseguenza del rapporto di lavoro e quella che è dovuta all'appaltatore dal medesimo committente in relazione al contratto di appalto stipulato dalle parti.
Ora, come ormai pacificamente si ammette dalla dottrina - a superamento di una concezione che inizialmente era stata sostenuta nella vigenza del codice civile del 1865 - il fatto stesso che la legge parli di "azione diretta contro il committente" e che la legittimazione attiva sia attribuita ai lavoratori "per conseguire quanto è loro dovuto", sta a significare che si verte in un'ipotesi diversa da quella prevista dall'art. 2900 c.c. Al contrario dell'azione surrogatoria - che è caratterizzata dalla sostituzione del creditore al proprio debitore per far valere un diritto appartenente a quest'ultimo e per ottenere che il bene oggetto del giudizio possa rientrare nel patrimonio del soggetto sostituito - con l'azione prevista dall'art. 1676 c.c. i lavoratori fanno valere un diritto proprio, che la legge loro riconosce non in sostituzione del loro debitore, ma direttamente: tanto è vero che, come è stato precisato in dottrina, "gli, effetti economici dell'azione si trasmettono automaticamente nella sfera giuridica degli ausiliari" e non nel patrimonio dell'appaltatore.
Di tal che, non diversamente da quanto accade in tutte le ipotesi nelle quali la legge prevede che da parte di un determinato soggetto possa essere promossa un'azione diretta contro un altro soggetto anche in assenza di un originario rapporto (sussistendo un diverso collegamento, operante tramite un terzo soggetto) (cfr., ad esempio, l'art. 1717, quarto comma, c.c., relativo al rapporto fra il mandante e la persona sostituita dal mandatario nonché l'art. 1595, primo comma, c.c., inerente al rapporto fra il locatore e il subconduttore), dal tenore della norma contenuta nell'art. 1676 c.c. risulta che, venuti in essere tutti gli elementi sopra indicati, necessari per il sorgere della fattispecie, immediatamente si determina la nascita di un rapporto diretto fra i lavoratori e il committente, che si aggiunge, sovrapponendosi, all'originario rapporto e che impedisce a quest'ultimo, una volta che il committente ne sia stato reso edotto tramite la domanda rivoltagli, di spiegare l'efficacia sua propria (ciò in vista della sua definitiva estinzione, i cui effetti si consumano con il pagamento eseguito ai lavoratori).
Come è stato osservato in dottrina, infatti, dal giorno in cui è proposta la domanda (che non è necessariamente quella giudiziale) e fino a quello del definitivo pagamento, all'iniziale rapporto di credito fra l'appaltatore e il committente si affianca un nuovo e connesso rapporto, quello fra gli ausiliari dell'appaltatore e il committente: soggetto, quest'ultimo, che per espressa volontà della legge diventa diretto debitore dei lavoratori (come garante ex lege, come si afferma da taluno, o in virtù di un accollo ex lege, come si sostiene da altri) in aggiunta all'appaltatore-datore di lavoro, unico originario debitore.
La previsione di questo particolare meccanismo, come è stato osservato dalla dottrina, ha fondamento in una finalità di natura preminentemente sociale, dato che il legislatore ha voluto predisporre uno strumento che è rivolto a tutelare una categoria di soggetti particolarmente deboli, come sono i lavoratori subordinati, per preservarli dal rischio dell'inadempimento o, peggio ancora, dell'insolvenza del datore di lavoro e che va equiparato, attesa la sud caratteristica collegata alla peculiare funzione, a quelle figure giuridiche, come i privilegi, che sono automaticamente destinate dalla legge a rafforzare, per coloro che si trovano in una determinata situazione, la garanzia generica che tutti i creditori hanno sul patrimonio del loro debitore.
Ratio della disposizione di legge è, quindi, non tanto quella delineata nel presente giudizio dalla difesa del fallimento - la quale, come si è visto, fa riferimento all'esigenza di attribuire ai dipendenti dell'appaltatore un mezzo più rapido per il soddisfacimento delle loro pretese, sostenendo che tale esigenza sarebbe realizzata mediante l'attuazione del principio di "contemporaneità" fra l'accertamento del credito e la successiva esecuzione - quanto quella di garantire agli ausiliari dell'appaltatore, proprio in relazione ad una attività lavorativa prestata per l'esecuzione dell'opera o del servizio appaltati al loro datore di lavoro, il pagamento della retribuzione dovuta per quella determinata attività, in modo da sottrarre il soddisfacimento del relativo diritto al rischio dell'insolvenza del debitore.
Del resto, come pure é stato sottolineato dalla dottrina, la possibilità offerta dalla legge ad una determinata categoria di lavoratori - quelli che hanno prestato la loro attività per quel determinato appalto e nell'interesse di colui che lo ha commissionato - con l'attribuzione ai medesimi di un'azione eccezionale, che permette di soddisfare il credito vantato verso il datore di lavoro mediante il diretto pagamento eseguito dal committente (e senza necessità di far transitare nel patrimonio dell'appaltatore le somme a questi dovute), trova giustificazione proprio nel beneficio che il committente trae dai risultati conseguiti dallo svolgimento di quella particolare attività.
Il che implica, per un verso, che l'appaltatore, dopo la richiesta rivolta dai suoi ausiliari al committente, non può pretendere da questo l'adempimento (né può promuovere nei confronti del medesimo l'esecuzione forzata qualora fosse già munito di un titolo esecutivo) e, per un altro verso, che gli altri creditori dell'appaltatore, che pure hanno la possibilità di soddisfarsi sulle somme dovute dal committente previo esercizio dell'azione surrogatoria, tuttavia perdono questa facoltà qualora da parte degli aventi diritto sia stata già esercitata l'azione di cui si discute. Si consideri, d'altra parte, quanto sopra è stato già rilevato, e cioè che il pagamento fatto dal committente agli ausiliari dell'appaltatore ai sensi dell'art. 1676 c.c. estingue, in corrispondenza della somma versata, sia il debito del medesimo committente verso l'appaltatore, sia il debito di quest'ultimo verso i lavoratori.
Questi principi ricevono applicazione anche nel caso della dichiarazione di fallimento dell'appaltatore-datore di lavoro.
Posto che l'esercizio dell'azione da parte degli ausiliari impedisce qualsiasi altra iniziativa individuale - non importa se proveniente dall'appaltatore o dagli altri suoi creditori e senza che possa avere rilievo il mezzo processuale impiegato alle stesse conclusioni deve pervenirsi qualora intervenga il fallimento dell'appaltatore, l'esecuzione collettiva non differendo, quanto alla natura e ai limiti che incontra, da quella individuale. E si deve, quindi, affermare che, ai fini di cui si discute, l'apertura del procedimento concorsuale non può incidere sulla posizione di quei lavoratori che hanno già esperito l'azione prevista dalla norma di legge in esame, giacché, se si ritenesse il contrario, si finirebbe con il disconoscere la concreta finalità perseguita dalla legge; sicché, dovendosi escludere che il soddisfacimento delle pretese vantate dagli altri creditori possa essere conseguito con nocumento delle ragioni di quei lavoratori che hanno prestato la loro attività per l'esecuzione dell'opera o del servizio appaltati e che fanno affidamento sulle somme dovute dal committente per tale esecuzione si deve asserire che, se l'azione sia stata già promossa, non ricorre nei confronti della stessa alcun profilo di improcedibilità.
D'altra parte, se si tiene conto del fatto che l'azione ex art. 1676 c.c., che è, per espressa previsione di legge, diretta, incide, in quanto tale, direttamente sul patrimonio di un terzo (il committente) e solo indirettamente su un credito del debitore fallito (del quale, proprio a causa di niella azione, è impedito il realizzo), si comprende come l'apertura del procedimento fallimentare non possa spiegare effetti sulle ragioni vantate dai lavoratori; e non vale, per conseguenza, invocare gli artt. 51 e 52 del r.d. 16 luglio 1942, n. 267, essendo del tutto estranea al fallimento una iniziativa già intrapresa da una particolare categoria di creditori (ai quali dalla legge è accordata una specifica tutela) e tendente al conseguimento di una somma che, non essendo stata ancora corrisposta all'originario creditore, fa parte del patrimonio non già del datore di lavoro fallito, ma del committente (il quale, come é stato sottolineato dalla dottrina, è terzo rispetto al fallimento).
Ai risultati interpretativi finora esposti è già pervenuta questa Corte della sentenza n. 4051 del 10 luglio 1984, indicata dai ricorrenti. In tale sentenza, a conclusione delle argomentazioni svolte per individuare la natura dell'azione prevista dall'art. 1676 c.c., é stato affermato che "l'apertura del procedimento concorsuale non può precludere l'esperimento di una azione tra terzi. espressamente accordata dalla legge"; ed è stato aggiunto che, se è vero che l'art. 52 della legge fallimentare - che va letto in unione con il precedente art. 51, dettato per le azioni esecutive - apre il concorso dei creditori sul patrimonio del fallito, impedendo l'esercizio di azioni proposte contro quest'ultimo in sedi diverse da quelle sue proprie, è altrettanto vero che uguale effetto il medesimo articolo di legge non può avere "per le azioni autonome tra terzi, quali l'ausiliario e il committente", in relazione a somme di danaro che, prima dei pagamento, ancora si trovano nel patrimonio del committente. Conclusioni, codeste, che sono state poi riprese da questa Corte in successive pronunce, nelle quali, allo scopo di determinare la competenza del giudice del lavoro nella controversia promossa dai lavoratori contro il committente, è stato sostenuto che l'azione "è del tutto autonoma da quella esperibile nei confronti dell'appaltatore-datore di lavoro e può dunque esplicarsi davanti al giudice del lavoro anche in caso di sopravvenuto fallimento di quest'ultimo" (Cass. 24 ottobre 1996 n. 9303, Cass. 14 maggio 1998 n, 4897 e Cass. 14 dicembre 1998 n. 12551; cfr. in precedenza anche Cass. 6 giugno 1983 n. 3855).
Dai rilievi fin qui esposti deriva che il sospetto di incostituzionalità dell'art. 1676 C.C. nell'interpretazione che ne è stata data dal Tribunale, prospettato dalla difesa del fallimento ricorrente, non ha ragion d'essere.
Considerato che l'art. 3 della Costituzione nella lettura fattane dalla suddetta difesa in corrispondenza con il principio della par condicio creditorum che presiede le procedure esecutive concorsuali - non può ritenersi violato in presenza di situazioni disomogenee che giustificano una differente disciplina (causata da una precisa scelta di politica legislativa adottata dal legislatore) e considerato, quindi, che la ricorrenza di tali situazioni non può determinare alcun profilo di irrazionalità nel significato dato ad una disposizione di legge, é a dirsi che proprio l'interpretazione data alla norma dalla dottrina prevalente e dalla giurisprudenza conforme ai principi fondamentali del nostro ordinamento in tema di tutela del lavoro, in tutte le sue articolazioni, quali si desumono dagli artt. 4, 35 e 36 della Costituzione; con la conseguenza che la questione di legittimità costituzionale dedotta dal fallimento della società I. s.p.a. deve essere dichiarata manifestamente infondata, non essendo irrazionale una norma che accorda uno specifico beneficia a determinati lavoratori, anche rispetto ad altri, in relazione alla attività lavorativa dai medesimi espletata e dalla quale un altro soggetto (il committente, parte del contratto di appalto stipulato con il loro datore di lavoro) ha ricavato un particolare vantaggio.
Le argomentazioni finora svolte, unitariamente considerate, esimono la Corte dal confutare singolarmente tutte le censure dedotte nei due ricorsi sopra indicate con le lettere da a) ad l). Qui va solamente aggiunto che l'articolata conclusione alla quale si perviene in entrambi i ricorsi - la necessità che sia attuato, a causa della dichiarazione di fallimento dell'appaltatore, il concorso di tutti i creditori, l'impossibilità che sia sottratta all'esecuzione concorsuale una parte del patrimonio della società, la pretesa natura esecutiva dell'azione prevista dall'art. 1676 c.c. (la quale, come tale, non potrebbe sopravvivere al fallimento), il fatto che i lavoratori possono ottenere dal committente il pagamento di somme il cui ammontare non superi il credito vantato dall'appaltatore - e frutto di uria non corretta premessa, giacché ambedue i ricorrenti, pur affermando di voler aderire alla tesi secondo cui l'azione accordata dalla legge ai lavoratori, al contrario di quanto è previsto per l'azione surrogatoria, è diretta e autonoma, poi mostrano, in concreto, di dissentirne, come è prova la proposizione, esposta in entrambi. i ricorsi, secondo cui la domanda degli ausiliari dell'appaltatore contro il committente determina le medesime conseguenze del pignoramento presso terzi del credito del datore di lavoro. Con tale proposizione, infatti, si trascura di considerare che il diritto riconosciuto dalla legge ai lavoratori, ricorrendo tutte le condizioni contemplate dalla legge, sorge in capo ai medesimi lavoratori, per affiancarsi, allo scopo di sostituirlo nel momento in cui é eseguito il pagamento, al diritto che già esiste in capo all'appaltatore; e, inoltre, si finisce con il confondere l'azione esecutiva - che viene promossa, anche presso terzi, su un elemento attivo del patrimonio del datore di lavoro e che resta travolta dal fallimento del debitore - con l'azione di cognizione attribuita a determinati soggetti, nei confronti di un terzo, per l'accertamento di un diritto che è loro direttamente riconosciuto dalla legge.
Resta, infine, da esaminare l'ultima censura (indicata con lettera m) dedotta dal Ministero delle Finanze, con la quale quest'ultimo sostiene, come si è detto, che alcune delle lavoratrici che hanno proposto l'azione ex art. 1616 c.c. non avrebbero "mai prestato attività di servizio di pulizia nei locali di proprietà dell'amministrazione finanziaria".
Per disattendere anche questa censura, basta, da un lato, richiamare l'accertamento compiuto nella sentenza impugnata, nella quale è stato affermato che la prova della "prestazione dell'attività lavorativa presso il Ministero da parte degli appellati" era emersa dai documenti prodotti in giudizio e, soprattutto, dalla deposizione della teste Viventi, funzionaria della medesima amministrazione; e, dall'altro, rilevare che, a fronte di siffatto accertamento, il ricorrente, lungi dal precisare, in concreto, il vizio di omessa o insufficiente motivazione (con l'indicazione di risultanze probatorie non valutate o insufficientemente valutate), si limita a fornire un apprezzamento delle prove diverso da quello compiuto dal giudice di appello.
Ciò posto, passando all'esame del terzo motivo del ricorso proposto dal fallimento. quest'ultimo, nel denunciare la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2906 c.c., 686 c.p.c., 42 e 51 della legge fallimentare, oltre al vizio di omessa motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360, primo comma n. 3 e 5, c.p.c.), sostiene che il Tribunale non avrebbe dato adeguata risposta alle censure (dedotte nell'atto di appello) inerenti al provvedimento di sequestro del credito vantato dalla società I. s.p.a. verso il Ministero delle Finanze, chiesto dai lavoratori ed autorizzato dal Pretore di Roma prima dell'inizio del presente giudizio.
Il ricorrente, in particolare, sottolinea che dal provvedimento autorizzativo del sequestro era derivato un vincolo di indisponibilità sulle somme dovute dal Ministero all'appaltatore, con la conseguenza che, una volta dichiarato il fallimento del debitore, le somme sequestrate, essendo confluite automaticamente nella procedura concorsuale, non potevano essere attribuite ai creditori sequestranti.
Anche questo motivo è privo di fondamento.
Dalle scarne indicazioni fornite dalle parti e dalle altrettanto scarne argomentazioni subite sul punto nella sentenza impugnata, non si riesce compiutamente a comprendere se il provvedimento di sequestro conservativo sulle somme dovute alla società I. s.p.a. dal Ministero delle Finanze fosse stato autorizzata (prima dell'inizio della causa di merito, come è pacifico) a favore dei lavoratori in relazione al credito diretta dagli stessi vantato nei confronti del medesimo Ministero in base all'art. 1676 c.c. - sicché, in tal caso, si sarebbe trattato di un sequestro, su beni mobili, presso il debitore - o se, viceversa (come è più plausibile), il provvedimento del giudice avesse avuto per oggetto il credito della società I. s.p.a. nei confronti dell'amministrazione finanziaria.
Ricorrendo questa seconda ipotesi, peraltro, non viene chiarito se fosse stata posto in essere lo Speciale procedimento prevista dalla legge per il sequestro presso terzi e, in particolare, se il Ministero delle Finanze avesse, o no, reso la prescritta dichiarazione a norma dell'art. 543 e segg. c.p.c., richiamati dal successivo art. 678 (v., in particolare, l'art. 598 c.p.c., relativo alla mancata comparizione del terzo o al rifiuto di questo a rendere la dichiarazione o alla eventualità che sulla dichiarazione sorgano contestazioni).
In questa situazione di evidente incertezza, le censure dedotte dai fallimento ricorrente non possono trovare accoglimento.
Qualora si fosse realizzata la prima delle due ipotesi sopra delineate (il sequestro presso il debitore-Ministero delle Finanze di beni mobili di proprietà del medesimo), la decisione emessa dal Tribunale dovrebbe rimanere ferma, perché, una volta che sono stati accertati (e liquidati) i crediti fatti valere dai lavoratori direttamente nei confronti dell'amministrazione convenuta, é evidente che la conseguenza non potrebbe che essere quella individuata nella sentenza, impugnata, essendoti il sequestro convertito in pignoramento, a norma dell'art. 686 c.p.c., in danno del debitore nel momento in cui è stata emessa la sentenza di condanna, esecutiva, a conclusione del giudizio di primo grado.
Al contrario, se si fosse realizzata la seconda eventualità (il sequestro di un credito della debitrice società I. s.p.a., nei confronti del terzo Ministero delle Finanze), a parte che, come è stato sopra esposto, manca in causa qualsiasi indicazione per stabilire se la misura cautelare fosse stata legittimamente eseguita (e il relativo procedimento portato a compimento), non si sarebbe realizzata alcuna possibilità di conversione del sequestro in pignoramento, dato che, come è stato esposto in narrativa, la pronuncia di condanna emessa dal primo giudice a favore dei lavoratori e a carico della società I. s.p.a. è stata travolta dalla decisione, non impugnata da chi ne aveva interesse, con la quale il Tribunale ha dichiarata l'improcedibilità della domanda proposta dai lavoratori "nei confronti del fallimento". E, anche se si ritenesse il contrario, la conclusione non potrebbe essere diversa, dal momento che, essendo stata la pronuncia dichiarativa di fallimento della società I. s.p.a. emanata, come è pacifico, soltanto dopo che i lavoratori avevano esercitato contro il Ministero l'azione prevista dall'art. 1675 c.c., la priorità della proposizione di tale azione, come è stato spiegato nella trattazione del primo motivo, aveva impedito al fallimento di acquisire all'attivo le somme di danaro di cui si discute.
Va, da ultimo, esaminato il secondo motivo (indicato con i numeri 3 e 4) dell'impugnazione proposta dal Ministero delle Finanze, con il quale quest'ultimo, nel dedurre la violazione e la falsa applicazione dell'art. 1676 c.c. e il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360, primo comma n. 3 e 5, c.p.c.), sostiene:
a) che le somme sottoposte a sequestro dai lavoratori attenevano non già ad un contratto di appalto "validamente efficace fra le parti", ma "alla esecuzione di una attività di servizio di pulizia di locali, svolta solo in via de facto", non essendo mai "intervenuto un atto di approvazione dello schema di contratto" né risultando che fosse stato emanato un atto di riconoscimento di spesa; b) che, d'altra parte, anche a ritenere che un contratto fosse stato stipulato, il credito della società appaltatrice non era né certo né liquido né esigibile, dato che la procedura contabile non aveva esaurito il suo iter attraverso la fase dell'impegno di spesa, della liquidazione e dell'ordinazione del pagamento e dato che l'opera svolta non era stata sottoposta, ai sensi dell'art. 351 della legge n. 2248 all. F, a collaudo; c) che da parte dell'amministrazione finanziaria accorreva effettuare l'accertamento "di eventuali partite di controcrediti, come, del resto, era stato fatto presente al Tribunale nella memoria difensiva del 24 novembre 1998, con la conseguenza che errata è la pronuncia con la quale è stata dichiarata l'inammissibilità delta eccezione di compensazione in quanto irritualmente dedotta, anche perché l'eccezione in questione doveva ritenersi implicitamente compresa nella eccepita inammissibilità di qualsiasi statuizione di condanna senza il necessario riconoscimento del debito nella competente sede amministrativa".
Anche queste censure sono infondate.
Quanto alla prima, è a dirsi che il ricorrente, dopo avere (implicitamente) dato atto che il contratto di appalto avente per oggetto il servizio di pulizia dei locali del CESID era stato stipulato fra le parti, nemmeno indica per quale ragione la pattuizione sarebbe rimasta priva di effetti (dato che solamente accenna, in modo del tutto generico, alla necessità di un provvedimento di. approvazione, senza peraltro di tale atto specificare la provenienza e, soprattutto, i tempi). Su questo punto della controversia, d'altra parte, sussiste l'accertamento compiuto dal Tribunale, il quale, senza adeguata smentita (mediante l'allegazione, in concreto, di elementi probatori asseritamente non esaminati nella sentenza), ha osservato che "la prova della sottoscrizione e dell'esistenza di un regolare contratto di appalta l'ha fornita lo stessa Ministero, che ha allegata al proprio fascicolo due contratti, di cui il secondo integrativo".
Riguardo alla seconda censura, poi, va richiamato quanto è stato esposto da questa Corte sia nella (non recente) sentenza n. 3870 del 19 ottobre 1954, sia nella più vicina sentenza n. 4051 del 10 luglio 1984 (già più volte indicata).
Nella prima di tali sentenze é stato affermato che l'art. 1676 c.c. trova applicazione anche in relazione agli appalti regolati dalla l. 20 marzo 1865 n. 2248 all. F sui lavori pubblici, col solo limite prevista dall'art. 351 di tale legge, dato che l'azione diretta degli ausiliari dell'appaltatore contro la pubblica amministrazione non può essere esercitata durante l'esecuzione delle opere appaltate.
In applicazione di questo principio, quindi, si deve ritenere l'ammissibilità dell'azione promossa dai lavoratori nel presente giudizio, giacché, posto che l'appalto del servizio di pulizia nei locali del CESID era stato compiutamente eseguito, come ha accertato il Tribunale, il ricorrente non ha investito con una apposita censura l'assunto, contenuto nella sentenza impugnata, secondo cui, attesa la natura del servizio appaltato alla società I. s.p.a., l'attività di collaudo non doveva essere espletata.
Nella seconda sentenza è stato precisato che, essendo le norme dettate dal codice civile in tema di appalto applicabili, salvo che non sia espressamente previsto il contrario, anche alle convenzioni stipulate con le pubbliche amministrazioni, l'importanza che la norma contenuta nell'art. 1676 c.c. ha in materia di tutela dei lavoratori trova puntuale riscontro - anche negli appalti per opere eseguite o per servizi. svolti, per conto di una pubblica amministrazione - nell'art. 357 della l. 20 marzo 1865 n. 2248 all. F, la quale espressamente stabilisce che l'amministrazione può "pagare direttamente la mercede giornaliera degli operai" dell'impresa appaltatrice, non corrisposta alle previste scadenze; ed è stato aggiunto che l'art. 351 della medesima legge, che limita la possibilità del sequestro "sul prezzo di appalto", non può estendere il suo campo di applicazione all'azione diretta, contemplata dal suddetto art. 1676 c.c., giacché la norma, unitamente a quella di cui all'art. 357, sopra indicata, "manifesta, al contrario, la configurabilità di rapporti diretti tra gli ausiliari dell'appaltatore e l'ente committente".
Considerazione, codesta, che nel caso in esame deve essere recepita per ritenere che, propria per la natura dell'azione e per la finalità che la stessa persegue, non passa trovare spazia la normativa relativa alla osservanza delle norme sulla contabilità.
Della terza censura, infine, va rilevata l'estrema genericità, perché non viene nemmeno chiarito se fra le parti fossero esistenti partite di dare ed avere inerenti al medesimo rapporto o contrapposti crediti relativi a rapporti diversi con la conseguenza che ora non può essere sottoposta a sindacato l'affermazione del Tribunale secondo cui l'eccezione di compensazione non poteva essere esaminata nel merito per non essere stata dedotta, ai sensi degli artt. 1242, primo comma, c.c. e 416 c.p.c., nella memoria difensiva del giudizio di primo grado (cfr. Cass. 25 maggio 1995 n. 5757).
Tenuto conto di tutte le argomentazioni che precedono, poiché la sentenza impugnata si sottrae a tutte le censure dedotte, i ricorsi proposti dal fallimento della società I. s.p.a. e dal Ministero delle Finanze debbono essere rigettati e i ricorrenti, rimasti soccombenti, debbono essere condannati a pagare, in solido, alle controricorrenti le spese del presente giudizio. Non deve essere emesso alcun provvedimento sulle spese nei confronti degli intimati che non hanno svolto attività difensiva.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta. Condanna, in solido, i ricorrenti a pagare alle controricorrenti le spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessive Lire 43.000 oltre a Lire 10.000.000 (diecimilioni) per onorari. Nulla per le spese nei confronti degli altri intimati.
Così deciso in Roma il 18 dicembre 2000
















 

 

 


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