IL RISANAMENTO DELL'IMPRESA INSOLVENTE:
VECCHIE SUGGESTIONI E NUOVE ASPIRAZIONI

GIOVANNI SCHIAVON

Presidente del Tribunale di Belluno

Da molti anni - quantomeno dall'entrata in vigore della Carta Costituzionale - gli studiosi del diritto fallimentare e, soprattutto, gli operatori pratici avvertono l'esigenza di un radicale ammodernamento della normativa concorsuale. Quella tuttora vigente, ben si sa, è sorta in un contesto socio-economico, giuridico e politico ben diverso da quello attuale ed è dive-nuta totalmente inadeguata non solo rispetto alle esigenze espresse dalla Costituzione (tant'è che la Consulta, particolarmente negli anni '80, ha ripetutamente evidenziato l'incompatibilità di molte sue previsioni soprattutto con il principio fondamentale del diritto di difesa, mettendo, però, progressivamente ed inesorabilmente a nudo anche i limiti e le carenze dell'intero sistema), ma anche rispetto a quelle dell'economia moderna.
Il Legislatore italiano, dopo anni di inerzia, si è finalmente reso conto che l'ingresso dell'Italia nell'Europa ha comportato la necessità di adeguare anche il diritto societario e quello concorsuale ai modelli dei più moderni Stati europei. La Comunità Europea, da par-te sua, pur non avendo ancora elaborato una disciplina unitaria dell'insolvenza vincolante per gli stati membri, ha emanato, dopo anni di dibattiti, un Regolamento (quello del Consi-glio dell'Unione Europea 29/05/2000 n. 1346/2000, relativo alle procedure di insolvenza, che entrerà in vigore a partire dal Giugno del 2002) suscettibile di coordinare fra gli Stati le varie procedure concorsuali ed i loro effetti.
E' sulla base delle "spinte" provenienti prevalentemente dalla Comunità Europea che si è avvertita (per la verità, in modo quasi assillante, a causa dei consueti ritardi) l'esigenza di mettere mano alle riforme. Ma la nuova situazione impone ora di affrontare il problema in modo radicale, abbandonando la strada finora perseguita del ripensamento di singoli istitu-ti, isolatamente considerati, dell'inserimento di nuove regole in un contesto processuale obsoleto, dell'adeguamento di sistemi ormai vecchi ed irrecuperabili nella loro stessa ca-ratteristica strutturale. Ora non si tratta più di eliminare solo gli strappi più evidenti di un tessuto già totalmente liso e sbrindellato, ma di fondare ab origine un diverso sistema normativo, svincolato da quello precedente e dalla cultura che lo aveva espresso, in grado di dettare le nuove regole con le quali risolvere le crisi delle imprese: il nuovo sistema con-corsuale.
Vari sono stati i progetti di riforma sul tema dopo l'approvazione del Decreto Legislativo n. 270 del 1999 (la c.d. Prodi bis, sull'amministrazione straordinaria, che ha chiaramente contribuito a tracciare le linee guida del futuro impianto normativo): il progetto di riforma governativo, quello dei D.S., quello dell'A.B.I., quello di Giurisprudenza Commerciale.
Tutte queste iniziative, pur con diversificazioni anche notevoli su importanti snodi proces-suali e con originalità di soluzioni in molti punti qualificanti, registrano, comunque, un de-nominatore comune, un indiscutibile punto di partenza che varrà a connotare il radicale mutamento della "filosofia" di fondo del futuro ordinamento concorsuale, qualunque esso possa essere, rispetto a quello vigente. E' quantomeno sicuro che: 1) il sistema non dovrà più rivolgersi all'imprenditore, ma all'impresa, cui sarà attribuita un'autonoma valenza; 2) l'interesse primario sotteso alla riforma non sarà più soltanto quello del soddisfacimento dei creditori, bensì quello dell'utile recupero dell'impresa (o di parte di essa) o dell'azienda al processo produttivo, talché anche il fine primario della procedura non sarà (sempre e inevitabilmente ) la mera liquidazione dei beni costituenti l'impresa o l'azienda stessa per il soddisfacimento dei creditori, come ora avviene, bensì la conservazione e il loro "risana-mento" dell'impresa medesima.
Queste, in estrema sintesi, saranno le essenziali linee guida necessariamente presuppo-ste dalla prossima riforma del diritto concorsuale. Astrattamente ciò potrebbe sembrare non di poco momento perché quelle linee guida paiono talmente lontane dai principi fon-damentali dell'originario impianto concorsuale da farle apparire come "rivoluzionarie"; se non fosse, però, che ormai da anni i Tribunali italiani, già di fatto, hanno progressivamente costruito un'interpretazione tale da avere completamente superato la logica, insita nella vecchia legge, dell'inevitabilità e, anzi, della necessità dell'eliminazione totale dal mercato dell'impresa decotta e della polverizzazione delle sue componenti. Da tempo gli uffici giu-diziari più attenti hanno avvertito l'esigenza di prestare particolare attenzione a tutte quelle scelte operative delle procedure che, essendo comunque compatibili con il sistema con-corsuale vigente, in qualche modo consentano di raggiungere un effetto conservativo dell'azienda: si pensi, tanto per fare un esempio, all'evoluzione dell'istituto dell'affitto dell'azienda. Già all'epoca della nota vicenda delle Cementerie Meridionali la giurispru-denza (il Tribunale di Ariano Irpino, prima, e la Corte di Appello di Napoli, poi) si era resa conto che la liquidazione dell'attivo attuata rapidamente e con riferimento ai singoli beni del complesso aziendale non sempre realizza la miglior tutela degli interessi dei creditori e che, al contrario, l'"affitto" dell'azienda evita l'interruzione dell'attività, impedisce la disper-sione del valore del complesso produttivo e la disgregazione del suo appparato, evita la polverizzazione delle professionalità acquisita dai lavoratori, ne conserva, almeno in parte, i livelli occupazionali e, soprattutto, pone il curatore nella favorevole condizione di attende-re il momento più opportuno, anche per condizioni di mercato, per convertire, attraverso la vendita del complesso produttivo, l'attivo in denaro e ripartirlo fra i creditori. L'affitto dell'azienda, dunque, è stato ben presto visto come un utilissimo strumento liquidatorio, ma al tempo stesso conservativo dei valori produttivi, proprio per la sua capacità di realiz-zare, pur nell'ambito di una procedura fallimentare, un effetto circolatorio soggettivo di ap-parati tuttora in grado di realizzare ricchezza, pur se investiti da irreversibili crisi economi-che e finanziarie. E si è anche progressivamente preso coscienza che la gestione di un'impresa non appartiene ormai più alla sfera privatistica dell'imprenditore o dei suoi cre-ditori, implicando, invece, - come dirò più avanti - il coinvolgimento anche dell'interesse della collettività all'integrità del tessuto produttivo nazionale, tanto più se collegato ad una tutela dell'occupazione: e tutto ciò indipendentemente dalla sorte dell'imprenditore.
Sotto questo profilo, anche i più recenti interventi normativi nazionali e della Comunità Eu-ropea evidenziano chiaramente il concetto che la gestione dell'impresa deve proporsi di essere compatibile anche e soprattutto con le esigenze del sistema produttivo e dei lavo-ratori dipendenti. Per la verità, l'idea conservativa era stata chiaramente avvertita anche dalla normativa italiana degli anni fine '70 e inizi '80 (si pensi alla Legge c.d. Prodi 03/04/1979 n. 95, che ha convertito il D.L. 30/01/1979 n. 26), ma non potrà sfuggire all'interprete la profonda differenza esistente tra le nuove aspirazioni e le passate impo-stazioni. In allora la conservazione dei posti di lavoro era vista come valore assoluto, in sé, come forzato mantenimento dei livelli occupazionali in senso numerico, in quanto imposto da una disciplina normativa che, per raggiungere quel risultato, faceva largo uso di "aiuti di Stato", senza preoccuparsi dell'effettiva redditività di imprese, quasi sempre divenute vere e proprie "macchine da debiti", mantenute artificiosamente dalla mano pubblica, che ne assorbiva altrettanto sistematicamente anche le perdite. Ma il successivo affermarsi del divieto degli aiuti di Stato alle imprese e le ripetute censure della Corte di Giustizia della Comunità Europea nei confronti dell'Italia per violazione dei principi comunitari posti dall'art. 4, lett. C) del Trattato CECA e dall'art. 93.2 del Trattato CE hanno finito per evi-denziare la pura demagogia di quell'obiettivo, in virtù del quale si conservavano in vita or-ganismi obsoleti, largamente insolventi e privi di futuro, per di più anche suscettibili di alte-rare in modo scorretto gli equilibri del mercato, al solo scopo dichiarato di evitare la dimi-nuzione dell'occupazione. Quella era la logica della conservazione obbligata.
Ora, invece, non è dubitabile che la tutela dell'occupazione (e non necessariamente dei li-velli di occupazione) va vista non come valore in sé, come autonomo obiettivo, bensì co-me strumento per il raggiugimento del risanamento dell'impresa. Nel senso che questo ri-sultato dovrà essere attuato solo ove possibile e, comunque, solo nella prospettiva del re-cupero reddituale dell'impresa, non essendo più possibile concepire il primo indipenden-temente dal secondo. L'impresa risanata dovrà mantenersi in vita da sola, in forza del ri-sultato positivo del raffronto fra i suoi costi e i suoi ricavi, talchè anche la conservazione dell'occupazione dovrà rendersi compatibile con le esigenze connesse al raggiugimento di quel medesimo risultato.
Ecco, dunque, che la portata innovativa è, in realtà, solo apparente perché le riforme at-tuate o da attuare si inseriscono in un contesto normativo profondamente diverso da quel-lo originario, proprio in virtù delle ripetute interpretazioni evolutive della giurisprudenza. Ma ecco, altresì, un primo aspetto che evidenzia il punto di rottura fra le nuove "aspirazioni" del futuro risanamento (indipendentemente da come lo si vorrà concepire ed articolare, nei dettagli) e le "suggestioni" tratte dalla filosofia del vecchio e superato sistema concorsuale e della legislazione di sostegno che realizzava le socializzazioni dei dissesti. Dunque, il fu-turo modello normativo non potrà, anzitutto, non tener conto che è venuta ormai definiti-vamente meno - come nelle legislazioni dei Paesi Europei - non solo la tradizionale con-cezione esclusivamente liquidatoria delle procedure concorsuali, ma altresì quella della sopravvivenza forzata di simulacri di impresa, tipica della normativa degli anni '70 e '80.
Resta tuttavia da verificare se il futuro impianto normativo riuscirà veramente ad essere un utile e nuovo strumento di recupero produttivo delle imprese in crisi. A tale riguardo, non va dimenticato che uno dei problemi fondamentali della tematica del risanamento consiste anche nel fatto che la stessa impresa di questa odierna economia non è quasi più (e sem-pre meno tende ad esserlo) quella presa in considerazione dal Legislatore del 1942 (e dal-la legislazione successiva, frutto della politica di mera assitenza). Quella era una impresa caratterizzata soprattutto dalla necessità di immobilizzazioni, nella quale il capitale fisso costituiva la fondamentale ragione della sua solidità economica e al tempo stesso la mi-gliore garanzia per il ceto creditorio; invece, la prevalente componente dell'odierna impre-sa è il patrimonio intangibile costituito da beni immateriali e cioè da valori particolarmente evanescenti e fragili nella prospettiva di un programma di conservazione aziendale. E già questa realtà è tale da condizionare fortemente l'individuazione delle stesse specifiche tecniche di risanamento. Inoltre, le aziende si avvalgono sempre più di beni fisici utilizzati soprattutto in regime di locazione o di affitto e tendono ad evitare l'acquisizione della pro-prietà dei beni strumentali, come, invece, avveniva quarant'anni fa. Si ricordi, infatti, che la Legge Fallimentare del 1942 disciplina tuttora la fase della "liquidazione" (che costituiva al-lora il fine stesso della procedura) sulla base del modello del procedimento dell'esecuzione mobiliare o immobiliare, come si ricava dal principio espresso dall'art. 105 L.F., supponendo così proprio il carattere di dominanza dei beni materiali nell'ambito della struttura dell'impresa e delle sue componenti patrimoniali. Sicché l'attuale legge fallimenta-re italiana continua ad esprimere apertamente la necessità di risolvere la crisi dell'impresa solo attraverso lo schema dell'esecuzione individuale, proprio perché di questa ha le con-notazioni, l'oggetto e le finalità.
Queste brevi (e forse scontate) premesse valgono ad evidenziare un concetto importante: la diversità sostanziale dell'impresa rispetto a quella del 1942 non può non riflettersi sulla individuazione delle tecniche dell'intervento risanatorio e soprattutto dei loro tempi. In pas-sato, la stabilità nel tempo del valore economico dei beni materiali (anzi, paradossalmente, il suo aumento, nell'ipotesi di beni immobili) consentiva interventi anche tardivi nel conte-sto di ormai conclamate insolvenze; l'attuazione anche non tempestiva delle regole liqui-datorie tradizionali non creava più di tanto danno ai creditori, se non per l'effetto della con-trapposta perdita del potere di acquisto dei loro crediti. Ora, invece, un intervento tardivo, una protrazione della crisi di impresa, anche minima, comporta l'inevitabilità - non solo il rischio - della definitiva ed irrecuperabile perdita del patrimonio intangibile; tanto per fare un esempio: la percezione "esterna" della crisi di impresa determina spesso la "fuga" delle maestranze più qualificate, che vengono assorbite immediatamente dall'impresa concor-rente, e la sparizione degli spazi di mercato, occupati immediatamente da altri: con l'ulteriore evidente conseguenza che la crisi diventa improvvisamente non più gestibile, non più controllabile e si trasforma in vera e propria insolvenza.
Ecco allora un secondo aspetto per il quale le nuove aspirazioni registrano un punto di frattura rispetto al recente passato.
Chiarito, quindi, che la carica innovativa dell'imminente riforma è molto profonda, se riferita al testo letterale della legge del 1942, ma assai modesta, se posta a confronto con il c.d. diritto vivente, l'interprete si deve porre una domanda di fondo: saranno realmente pratica-bili programmi di risanamento di enti produttivi di questo tipo nel contesto di procedure concorsuali così previste? E, in ogni caso, se proprio si dovesse scegliere la strada del ri-sanamento come necessariamente attuabile nell'ambito di una procedura concorsuale ti-pica, sarà, comunque, in grado la nostra scalcinata organizzazione giudiziaria a concorre-re alla realizzazione di un programma di risanamento? Oppure, ancora una volta, andremo a costruire un impianto normativo "onirico" e privo di effettiva capacità attuativa, pur se condivisibile in astratto? I dubbi sono giustificati.
Per proporre qualche considerazioni più precisa devo fare necessariamente riferimento al modello di procedura che, fra quelli che sono stati presentati in questi tempi, ha maggiori possibilità di essere riprodotto: intendo riferirmi al modello di riforma contenuto nel disegno di legge governativo. Anche questo progetto - seguendo l'impostazione della legge c.d. Prodi bis - intende dirigersi all'impresa, non più all'imprenditore e intende apprestare a questa una serie di strumenti idonei al suo "salvataggio", inteso come valore trascendente gli interessi dell'imprenditore e anche quelli dei creditori. In questa prospettiva, esso disci-plina due distinte procedure, aventi altrettanti diversi presupposti a monte: la prima (quella c.d. di crisi) suppone l'esistenza non già di una insolvenza vera e propria (cioè una situa-zione riferita, come l'attuale art. 5 L.F., alla patologia del soddisfacimento delle obbligazio-ni nei rapporti soggettivi tra imprenditore e creditori), bensì di un'incapacità dell'impresa di operare secondo il principio di economicità. Essa si connota per presentare "sintomi" di squilibrio (patrimoniale, economico o finanziario) tali da comportare "pericolo di insolven-za".
La seconda (quella di insolvenza vera e propria) presuppone essa pure che l'impresa non operi più secondo il principio di economicità, per sua incapacità di coprire i costi con i rica-vi, ma, a differenza della prima, presuppone anche che essa non riesca neppure a reperire al suo interno i mezzi finanziari per tentare di rendere redditiva la sua attività.
Nella prima situazione, dunque, si suppone l'esistenza di una crisi solo economica, men-tre, nella seconda, essa - prescindendo, comunque, dalla crisi nei rapporti obbligatori fra debitore e creditori - diventa anche finanziaria; quest'ultima può essere bifasica, nel senso che è sempre comunque prevista una soluzione alternativa finalizzata, in brevissima sinte-si, a rendere possibile in ogni caso l'esigenza primaria di "salvare il salvabile".
I piani di risanamento, dunque nelle due diverse procedure, suppongono situazioni ben di-verse e dovranno essere formulati con criteri e con tecniche particolari nell'un caso rispet-to all'altro.
Va soffermata l'attenzione sul fatto che, per la prima procedura (quella c.d. di crisi), l'iniziativa è attribuita al solo debitore, essendo previsto che sia solo lui a proporre un pia-no di risanamento; nonché sul fatto che, come si è ricordato, il suo presupposto oggettivo è costituito da una situazione di "crisi", non di "insolvenza" vera e propria. Basterebbero solo queste due essenziali connotazioni per capire che, al di là delle intenzioni del legisla-tore, lo schema procedimentale così proposto non fa altro che ricalcare, in buona sostan-za, il percorso dell'attuale consecuzione dell'amministrazione controllata, del concordato preventivo e del fallimento. E già questa impostazione dovrebbe essere sufficiente ad evi-denziare il carattere meramente apparente di ogni tentativo risanatorio attraverso una pro-cedura di tal genere; soprattutto per una impresa moderna, dotata prevalentemente - co-me si è ricordato - di un sempre più importante patrimonio intangibile. Infatti, il disegno di legge sembra ignorare la ben nota tendenza del debitore di evitare fino all'ultimo le proce-dure alternative al fallimento: se percepisce la "crisi", l'imprenditore è disponibile a render-la "palese" solo quando si rende conto di non avere più futuro e solo quando lui stesso ha percorso tutte le strade del possibile risanamento. Questa è la realtà che non si può finge-re di ingnorare, perché la consolidata esperienza insegna che quasi tutte quelle che ricor-rono all'amministrazione controllata sono imprese (medio-piccole) che, in realtà, non han-no alcuna speranza di risanamento e che chiedono il beneficio dell'ammissione alla pro-cedura minore alternativa al fallimento solo come strumento per attuare, sotto l'ombrello protettivo della procedura stessa, accordi già intercorsi con i creditori. Quasi sempre l'esito di questa procedura è già scontato: si sa in partenza che l'impresa non si riprenderà più e che la sua crisi, prospettata come reversibile, è, in realtà, definitiva e non recuperabile, tal-chè sarà poi chiesto, alla scadenza del biennio, il passaggio al concordato preventivo che, a sua volta, sarà la porta di ingresso al fallimento. Ora come ora, vigente la procedura di amministrazione controllata, tutto ciò è possibile (con i guasti sul piano economico e del soddisfacimento dei creditori che tutti noi conosciamo) soprattutto perché l'iniziativa è la-sciata al solo imprenditore e perché il programma di risanamento proviene solo da lui e si fonda sempre su dati non attendibili e su sue valutazioni personali, generalmente non cor-rispondenti all'effettiva realtà. Un piano di risanamento credibile dovrebbe implicare una visione obiettiva dei margini di recupero dell'impresa e, al tempo stesso, dovrebbe consi-derare l'effettiva possibilità di impiegare risorse finanziarie esterne, la cui effettiva disponi-bilità è sempre da verificare e normalmente dipende da fattori sui quali l'imprenditore non avrà alcuna influenza.
Queste elementari considerazioni tratte dall'esperienza quotidiana di tutti i tribunali non possono essere dimenticate; esse dovrebbero evidenziare che, se non verranno modificati (non con il mero uso di un lessico diverso, ma nella sostanza) i presupposti di accesso alla procedura c.d. di crisi, essa non avrà, in realtà, alcuna capacità risanatoria. Finirà che ad essa accederanno solo le solite imprese medio-piccole ormai decotte, totalmente prive di funzionalità all'esercizio di un'attività economica; men che meno siffatta procedura avrà at-titudine alcuna a conservare il "patrimonio intangibile" di un'impresa moderna. Essa, dun-que, già sembra uno strumento largamente superato dai tempi ed obsoleto prima ancora di nascere: il piano di risanamento predisposto dal debitore sarà, nella realtà e come al so-lito, una vera e propria mistificazione, priva di qualsiasi credibilità; tanto più che i creditori chiamati ad approvarlo voteranno (peraltro, con l'ambigua formula della mancanza di e-spressione di dissenso) secondo gli specifici loro interessi individuali o di categoria e che neppure il tribunale potrà comunque apprezzarne, nel merito, la praticabilità, dovendo limi-tarsi, secondo il progetto stesso, ad un mero controllo di legalità. Probabilmente è anche giusto che il tribunale non abbia la funzione di vagliare, nel merito, la positività di un piano di risanamento, non avendo quasi mai alcuna capacità tecnica di apprezzarne la realizza-bilità; ma, allora, è almeno necessario evitare, per quanto possibile, il forte rischio di in-staurare procedure lunghe e costose, prive di sbocchi, per essere state, a monte, prive di "filtri".
Un effettivo cambiamento rispetto al passato avrebbe, invece, dovuto esprimere quanto-meno la necessità: di attribuire l'iniziativa dell'apertura della procedura di crisi anche a soggetti diversi dall'imprenditore, in grado di percepire per tempo l'insorgenza del males-sere (es. i creditori qualificati, i sindaci, il P.M.); di imporre che il piano di risanamento dell'impresa sia quantomeno attestato come fattibile da professionisti specializzati, che possano verificare l'esattezza dei dati indicati dall'imprenditore e la praticabilità di un tenta-tivo di risanamento fondato su prospettive aziendali realmente esistenti; di isolare dal pro-blema del risanamento dell'impresa quello del soddifacimento dei creditori.
Esaminiamo più da vicino il primo aspetto: l'attribuzione, nel progetto di legge governativo, della legittimazione a richiedere la procedura di crisi al solo debitore è forse dovuta, per un verso, alla preoccupazione di evitare possibili contrasti con la Carta Costituzionale, con norme suscettibili, in qualche modo, di sacrificare il diritto di proprietà dell'imprenditore e di limitarne l'iniziativa economica; per altro verso, alla considerazione che la "crisi" di un'impresa corrisponde, generalmente, ad una situazione in cui le difficoltà economico-finanziarie dell'organismo produttivo sono ancora tutte "interne" e, come tali, non agevol-mente percepibili dall'esterno.
La prima preoccupazione è innegabile; tuttavia, in quasi tutti gli ordinamenti moderni il sa-crificio degli interessi individuali dell'imprenditore trova giustificazione in presenza non sol-tanto di un vero e proprio stato di irreversibile insolvenza, che comporta l'obbligatoria in-staurazione di un procedimento di tipo espropriativo, ma anche di uno stato di temporaneo squilibrio finanziario, che sia tale da creare il probabile ed imminente pericolo che i diritti dell'imprenditore si pongano in contrasto con le esigenze di tutela di quelli altrui; e la stes-sa Carta Costituzionale (artt. 41 e 42) prevede situazioni in cui i primi devono cedere ai secondi. L'iniziativa economica privata può e deve svilupparsi liberamente, ma sempre nel rispetto delle regole economiche che determinano il concreto assetto del nostro ordina-mento; sicché, nell'ambito di quel potere di iniziativa, sussiste una stretta interdipendenza tra il fine di "utilità sociale" perseguito attraverso l'esercizio economicamente corretto dell'impresa, a tutela degli interessi generali, ed il fine di "utilità sociale" collegato ai diritti ed alle prerogative dell'imprenditore nel libero esercizio dell'attività produttiva. Costui gode di ampia autonomia per ciò che riguarda la vita, lo sviluppo e la cessazione dell'attività im-prenditoriale ed è libero di formulare i propri indirizzi e interventi ritenuti economicamente utili alla sua impresa; ma una tale sua autonomia trova pur sempre il limite dell'"utilità so-ciale", nell'ambito della quale concettualmente confluiscono i doveri fondamentali ed inde-rogabili di rispetto e di solidarietà anche economica e sociale. La gestione dell'impresa, pertanto, non è più un affare privato dell'imprenditore, come tale non suscettibile di com-pressione da parte di terzi, tutte le volte in cui la sua organizzazione sia tale da riflettersi negativamente sulla sfera giuridica di altri soggetti e sull'interesse della collettività; con la conseguenza che le iniziative dell'imprenditore devono comunque essere compatibili an-che con la tutela dei diritti e degli interessi altrui.
E, d'altra parte, il programma di risanamento nella procedura c.d. di crisi (v. disegno di legge governativo) mira solo al recupero dell'impresa al processo produttivo, il quale è e-spressione di un interesse pubblico, che trascende quello dell'imprenditore, e non anche all'espropriazione dell'impresa stessa: la quale, anzi, rimane in capo all'imprenditore, che altresì continua a gestirla, sia pure sotto un controllo di tipo tutorio. Ed anzi, in questa pro-spettiva, c'è semmai da chiedersi se sia, invece, costituzionale la previsione, contenuta nel progetto di legge, della possibilità, anche nella c.d. procedura di crisi, "di subentro o di scioglimento dei rapporti preesistenti"; il dubbio può riferirsi al fatto che, pur in presenza della continuazione della gestione ad opera dello stesso debitore, è consentito che il tenta-tivo di recupero dell'impresa avvenga anche con un ulteriore sacrificio di alcuni soggetti estranei, rispetto ai quali vengono alterati gli equilibri contrattuali in corso. Tanto più che, il sacrificio così unilateralmente imposto a questi soggetti (i titolari dei rapporti giuridici pree-sistenti, che potrebbero essere unilateralmente sciolti) è in funzione del risanamento di un'impresa che, poi, continuerebbe non solo ad essere gestita dal debitore, ma altresì che, una volta realizzato l'obiettivo, rimarrebbe pur sempre di sua esclusiva proprietà.
La seconda possibile spiegazione della limitazione della legittimazione del solo debitore (la conoscenza solo interna dello stato di crisi) non è esatta perché esistono soggetti "qualifi-cati" ben in grado di percepire autonomamente, e dall'interno, i segnali delle difficoltà eco-nomico-finanziarie dell'impresa: es.: lavoratori dipendenti, istituti bancari, sindaci delle so-cietà, soci, ecc..
Per concludere, molto sinteticamente, su questa previsione di risanamento nella procedu-ra di crisi contenuta nel disegno di legge governativo, ritengo che - in linea astratta - le premesse generali e le intenzioni di fondo (tutela non dell'imprenditore ma dell'impresa; esigenza primaria di salvare l'impresa; apprestamento di uno strumento improntato alla massima funzionalità e flessibilità operativa, diretto ad attuare un interesse della collettivi-tà) siano, pur se largamente ormai recepite dal "diritto vivente" pienamente condivisibili ed apprezzabili perché il recupero della produttività imprenditoriale deve essere realizzato anche attraverso il sacrificio degli interessi personali dell'imprenditore e la compressione dei diritti dei creditori. Tuttavia, un piano di risanamento sarà (nel migliore dei casi, quando addirittura non sia un deliberato strumento dilatorio, proposto per impedire che si faccia luogo alla liquidazione) solo velleitario, privo di concreta fattibilità e puramente illusorio quantomeno fino a quando non si allargherà la sfera dei soggetti legittimati a chiedere l'apertura della procedura e non si imporrà, comunque, la presentazione di un piano "certi-ficato" da soggetti tecnicamente qualificati, che assumano la responsabilità dell'esattezza dei dati elaborati e dell'effettiva praticabilità del programma medesimo.
In assenza quantomeno di queste condizioni, c'è da essere certi che si ripresenterà l'odierna identica situazione oggi connotata dalla ben nota consecuzione di procedure: amministrazione controllata-concordato preventivo-fallimento. Situazione che è ormai col-laudata per non avere alcuna capacità conservativa, men che meno di quei beni immate-riali di cui, oggi come oggi, è prevalentemente composto il patrimonio dell'impresa. Ben si sa che la ristrutturazione economica e finanziaria di un'impresa richiede molto tempo e soprattutto richiede l'impiego di capitali perché il realizzo dei rami di azienda non necessari al programma è sempre largamente insufficiente anche per il solo soddisfacimento dei creditori. Invece, se si continua a porre la condizione che il ritorno dell'impresa alla produt-tività debba comunque accompagnarsi al ripianamento dei pregressi debiti, non si otterrà mai l'effettivo superamento della crisi. E, d'altra parte, poiché il disegno di legge prevede una procedura caratterizzata dall'esistenza di termini brevi, per lo più perentori, ci si può anche chiedere come possa comunque essere compatibile, nell'ottica di un risanamento (per fini pubblicistici), la previsione di un termine di due anni per la sua attuazione, "salvo proroga non superiore a sei mesi". E quale potrà essere la "sanzione" derivante dal supe-ramento di questo termine? La dichiarazione di insolvenza? Se così fosse, ci sarebbe allo-ra da chiedersi se una tale previsione non confligga proprio con la ratio della normativa, quantomeno tutte le volte in cui il piano di risanamento, pur essendo a buon punto allo scadere del biennio, non fosse ancora interamente concluso.
E', quindi, agevole prevedere che l'unica possibilità conservativa possa attuarsi, ancora una volta, attraverso la strada della cessione a terzi dell'azienda o dei complessi aziendali, preferibilmente disancorando il problema del soddisfacimento dei creditori, ai quali do-vrebbe essere destinato unicamente il relativo realizzo e il ricavato della liquidazione degli altri beni, qualunque esso sia.
Le aspettative conservative, in definitiva, si concentreranno sull'altra procedura prevista (quella di insolvenza). A tale riguardo, infatti, il progetto ministeriale prevede che sia, an-che qui, comunque possibile la presentazione di un piano di risanamento. Ma, in questo caso, esso prevede: 1) che legittimati a presentarlo siano, oltre al debitore, anche qualsia-si terzo; 2) che il tribunale abbia ad emettere un giudizio di omologa, contenente non solo un controllo di legalità (come nel primo caso), ma anche di merito. Anche qui è stata riba-dita l'esigenza di privilegiare ogni soluzione che comporti la possibilità di salvataggio dell'impresa (o anche di una sua parte o anche di un'azienda). Ma, anche qui, è stato pre-visto che il programma di risanamento debba contenere non solo l'indicazione degli inter-venti necessari per la conservazione totale o parziale dell'impresa, anche mediante ces-sione dei complessi aziendali, ma altresì la previsione del pagamento in percentuale dei crediti, o con altre modalità concordate (sia pure con la massima autonomia al debitore, ai creditori e ad ogni altro interessato per la negoziazione del programma). Tuttavia, in que-sto caso, le possibilità di recupero dell'impresa (ancorchè ormai irrimediabilmente privata dal suo patrimonio intangibile) sono molto più consistenti e sono soprattutto legate alla possibilità di una cessione dei complessi aziendali a terzi (quella che la Prodi bis chiama "ristrutturazione"), con attribuzione della relativa gestione ad un soggetto diverso dall'imprenditore. Tanto più che è attribuita un'ampia autonomia negoziale al debitore ed ai creditori, che è prevista una "rinegoziazione del programma di risanamento" e che è anche contemplata la possibilità che i creditori medesimi siano soddisfatti con percentuali diver-se.
Sotto questo profilo le previsioni del progetto appaiono molto più realistiche ed apprezzabi-li. Resta, comunque, chiaro che questo solo in effetti sarà il tipo di programma realmente praticato in concreto: quello del risanamento nella procedura di crisi sarà, come si è detto, puramente teorico ed illusorio, come la futura esperienza non mancherà di evidenziare.
E' scontata, in questa procedura di insolvenza, l'utilizzabilità di ogni strumento possibile, dotato di flessibilità, che valga, come si è detto, a salvare i valori ancora esistenti dell'impresa, purchè ciò avvenga con la massima rapidità esecutiva. Ogni tecnica, fra le molte escogitate dalla pratica quotidiana, potrebbe essere praticabile.
C'è, in ogni caso, da considerare l'esigenza che il futuro legislatore disciplini positivamente e con compiutezza almeno lo strumento dell'affitto dell'azienda, che sarà sicuramente quello cui maggiormente si farà ricorso. La realtà ha ormai ampiamente dimostrato che il vero impedimento alla dispersione dei valori dell'impresa presuppone sempre la continua-zione dell'attività di gestione, che vale a conservare la funzionalità dell'apparato economi-co-produttivo dell'impresa. Ma l'unico modo per evitare che la continuità gestionale si ri-solva in un aggravamento del passivo e dei costi sociali dell'insolvenza è quello di porre immediatamente le condizioni per un rapido passaggio di mano dell'azienda, dal debitore insolvente ad un terzo, in grado, molto più di lui, di realizzare un effettivo piano risanato-rio. E quale strumento, più dell'affitto di azienda, è in grado di assicurare, senza particolari rischi per l'appesantimento del passivo, quella continuità amministrativa che, nell'ambito di una procedura concorsuale, è in grado di conservare la vitalità di un apparato produttivo e, al tempo stesso, di proporsi come strumento preparatorio alla conversione dell'attivo in denaro? Se così è, il legislatore avrebbe dovuto prevedere le necessarie deroghe alle di-sposizioni codicistiche che sanciscono il subentro degli acquirenti nei contratti di lavoro e la loro responsabilità solidale per i debiti inerenti all'esercizio delle aziende cedute, evitan-do loro i rischi connessi all'applicazione degli attuali artt. 2558, 2559 e 2560 C.C..
La conclusione che si può trarre da queste schematiche premesse, è, altrettanto sinteti-camente, riassumibile in queste considerazioni: l'imminente riforma del sistema concor-suale non riuscirà sicuramente a rendere attuabili nella procedura di insolvenza programmi di risanamento del tipo di quelli previsti perché, per le imprese medio-piccole, si riprodurrà inevitabilmente il consueto fenomeno della consecuzione di procedure, mentre, per quelle di rilevante portata economica, l'insolvenza sarà regolata, come oggi avviene, sulla base delle solite convenzioni bancarie e, quindi, al di fuori delle procedure tipiche. Ogni altra strada sarà o illusoria o velleitaria o puramente fittizia e strumentale, in quanto diretta ad altri fini. Ma, allora, la ristrutturazione aziendale non potrà che avere i ben noti limiti di rea-lizzabilità, tipici del passato, e nulla cambierà! In definitiva la riforma interverrà, ancora una volta, non in funzione anticipatoria di effettive nuove regole, bensì come verifica di prassi evolutive via via createsi nel tempo, a dispetto di un sistema normativo superato dai tempi e dall'economia.
E' vero che il legislatore non può escogitare astratte soluzioni che rendano possibile il ri-sanamento; ma allora crei le condizioni perché, almeno, esso non venga ostacolato. In questa prospettiva, mi pare che la soluzione preferibile avrebbe dovuto essere quella di evitare la necessaria canalizzazione delle crisi di impresa in procedure concorsuali tipiche e di dare il più ampio spazio possibile all'esplicazione della piena autonomia privata (sulla scia, del resto, di una tendenza delineatosi da tempo nel contesto internazionale ad affron-tare ed a risolvere la crisi dell'impresa con mezzi privatistici).
Ciò non significa che il legislatore debba dettare una specifica e dispersiva regolamenta-zione dei possibili accordi attuabili, che già sono ben conosciuti nella prassi quotidiana con diversificate tecniche. Significa, invece, che il legislatore dovrebbe prevedere una discipli-na che valga ad eliminare i persistenti dubbi sulla legittimità di quegli accordi: una discipli-na, cioè, che stabilisca positivamente i limiti entro i quali - soprattutto in caso di insucces-so del tentativo di risanamento stragiudiziale - gli accordi presi e gli atti esecutivi posti in essere, pagamenti compresi, possano mantenere validità anche in sede concorsuale. So-no, infatti, ben note le difficoltà operative avvertite da tutti i soggetti che hanno a che fare con imprese in crisi o insolventi, percependo il serio rischio di realizzare iniziative gestio-nali suscettibili di porsi, in caso di insuccesso del concordato stragiudiziale, all'attenzione del curatore nei suoi sforzi di ricostruzione del patrimonio del debitore attraverso le azioni revocatorie (e, talvolta, negativamente valutabili addirittura in un'ottica penalistica).
In questa prospettiva l'intervento del magistrato dovrebbe allora limitarsi ad un controllo da attuarsi fuori da prefigurati schemi procedimentali, diretto a valutare, anche nel merito, la legittimità degli accordi stessi, la loro praticabilità e l'assenza di frode, possibilmente in una situazione di totale superamento della regola della "par condicio" fra creditori, divisi per classi, secondo interessi omogenei. Dunque, quello del magistrato dovrebbe essere un in-tervento altamente qualificato in fuzione di "garanzia" per i creditori e per i terzi, nella fase di progettazione, e di "sorveglianza", in quella esecutiva del programma risanatorio.
Come si è detto, l'esperienza ha, da tempo, insegnato che un efficace mezzo di risana-mento (l'unico, comunque, in grado di avere effetti conservativi dei beni immateriali) è quello dell'affitto immediato dell'azienda e della sua vendita nel contesto di una successiva procedura concorsuale. Ma anche questa soluzione, ora come ora, comporta non solo gravi pericoli di condotte illegittime da parte del debitore o di terzi, ma altresì molti rischi, soprattutto per l'acquirente, derivanti dall'inesistenza di regole chiare. Perché, allora, per-dere questa irripetibile occasione di disciplinare, anche sotto questo profilo, la materia? E perchè non prevedere i limiti di validità e di efficacia, in una procedura concorsuale, di so-luzioni stragiudiziali poste in essere in epoca precedente?
In definitiva, le future scelte saranno innovative solo apparentemente, perché le loro linee guida - pur se astrattamente condivisibili, nei limiti di cui si è detto, sotto il profilo dei prin-cipi - sono state ampiamente anticipate dal "diritto vivente". Ciononostante, l'imminente ri-forma non sarà sicuramente in grado di offrire effettivi e concretamente utilizzabili strumenti conservativi, men che meno dei beni di un'impresa moderna, perché l'intero impianto normativo, soprattutto quello riferito alla procedura di crisi, ripropone esattamente l'identica odierna situazione e le difficoltà operative di sempre, pur con l'uso di un lessico giuridico apparentemente diversificato.
Ora come ora, non credo sussistano alternative all'esigenza della conservazione dell'impresa moderna. C'è il forte rischio che, nonostante la prevista riforma, il ceto credi-torio e l'intera collettività continuino a subire il grave danno derivante dal fatto stesso che un'impresa finisce nella rigida morsa di una procedura concorsuale espressa da uno stato di crisi o di insolvenza vera e propria.

 












 

 

 


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