CRISI DELL’IMPRESA ED ALTERNATIVE AL FALLIMENTO

Professor Michele Sandulli

Ordinario di Diritto Commerciale presso l'Università di Roma - III –


I.- Innanzi tutto porgo un cordiale saluto a tutti e un vivo ringraziamento; esprimo altresì l'apprezzamento per l'Ordine dei Dottori Commercialisti di Avellino, Ariano Irpino e Sant'Angelo dei Lombardi, che ha organizzato questo convegno. Sono ben lieto ed onorato di poter tenere questa relazione, che apre i lavori di una giornata che si presenta particolarmente densa di interventi, da cui tutti potremo trarre occasioni di riflessione. Vi prego di consentirmi di porgere un caldo ed affettuoso saluto ai miei ex allievi, che vedo qui numerosi e che, posso dire con l'orgoglio del docente, dopo aver dato ottima prova da studenti presso la Facoltà di Economia e Commercio dell'Università di Napoli “Federico II”, non hanno tradito le aspettative, quali professionisti.

Oggi sono docente presso la Terza Università di Roma, ma credo sia noto che ho sempre vissuto ad Avellino, e che in questa Provincia ho espresso anche una significativa forma di impegno civile e sociale. Tale complesso di circostanze comporta che il mio intervento avrà certamente come riferimento i profili tecnicogiuridici della crisi dell'impresa, ma non mancherà di essere calato anche nella nostra realtà provinciale.

Una realtà che in larga misura si è conservata sana, e che, quindi, come tale va preservata e difesa da ogni criminalità, ivi compresa quella economica.

2 - Il nostro Codice Civile del 1942 ha impostato e disciplinato il tema dell'impresa, riconoscendo alla stessa una sua centralità nell'ambito del sistema economico produttivo. L'impresa, quindi, è vista come strumento di raccordo tra capitale e lavoro e, quindi, come una componente essenziale del tessuto sociale, quale fonte e strumento di reddito per l'imprenditore e per i lavoratori, nonchè quale strumento di produzione nell'ambito del sistema economico nel suo complesso.

Il Codice, impostato nella prospettiva dell'ordinamento corporativo in un'ottica dirigistica, contiene norme che taluno ritiene tuttora vigenti, nelle quali l'impresa diventa quasi oggetto di organizzazione, disposizione, vigilanza da parte delle strutture statali-amministrative: mi riferisco agli artt. 2085 e seguenti, che appunto prevedono tra l'altro che l'indirizzo della produzione sia esercitato dallo Stato, e che vi sia una responsabilità dell'imprenditore per il mancato rispetto di tale indirizzo. Indubbiamente l'abrogazione dell'ordinamento corporativo, a seguito dell'avvento della Repubblica e del relativo sistema costituzionale, ha dato un nuovo contenuto alla "funzione" che l'ordinamento attribuiva all'impresa; da strumento di solidarietà corporativa a strumento di solidarietà democratica. Cioè, l'impresa non rileva come mera espressione della proprietà capitalistica, bensì come entità che consente di realizzare taluni dei principi fondamentali della Carta Costituzionale, quali la libertà di iniziativa economica, da una parte, e il diritto al lavoro, dall'altra.

E' evidente che alla luce di questa ottica complessa la crisi dell'impresa non possa essere considerata come un evento "privato", nel quale esplode il conflitto tra debitore e creditori, bensì come un evento di rilevanza più generale, che coinvolge una pluralità di interessi meritevoli di tutela (lavoro, concorrenza, servizi essenziali, equilibri economici generali, ecc.).

3 - Prima di affrontare il tema della crisi dell'impresa, ritengo sia essenziale tenere presente una distinzione: impresa vera e impresa non vera, impresa produttiva e impresa sanguisuga. Al fine di evitare di considerare unitariamente fenomeni tutt’affatto diversi, ritengo sia indispensabile questa riflessione preliminare.

Proprio nella nostra provincia, e massimamente nella c.d. zona del cratere del sisma del 1980, abbiamo avuto degli esempi di imprese “fantasma”, la cui presenza sul territorio era essenzialmente collegata alla elargizione dei benefici del dopo terremoto che, come è noto, hanno comportato finanziamento a fondo perduto per un’alta percentuale delle realizzazioni che i nuovi insediamenti industriali operavano. Abbiamo visto numerose imprese entrare in crisi e fallire, talvolta prima del completamento degli opifici, talvolta poco dopo l’avvio della produzione (peraltro priva di quei requisiti organizzativi e strutturali che l’erogazione del finanziamento supponeva, con conseguente decadenza dagli “aiuti”).

Altra tipologia è quella delle imprese che si organizzano per raccogliere risparmio, cavarlo dalla tasca di tanta gente semplice, allettata dalla promessa di miracolosi interessi, e poi dissiparli o distrarli per iniziative “personali” del tutto estranee alla finalità dell'impresa finanziaria. Anche in quest’area geografica, di recente, sono state vissute amare esperienze di tal genere; così come del resto qualcosa di molto simile (anche se con valori più consistenti) si è avuto a Napoli.

Ancora, a questa categoria d'impresa “negativa” appartiene l'impresa camorristica o mafiosa, destinata spesso ad investimenti, la quale opera in funzione del riciclaggio di danaro sporco da attuare in un arco di tempo limitato, ovvero con finalità di preordinato inadempimento alle obbligazioni (tipica l’apertura di supermercati, l’acquisto a credito di merci e la successiva “scomparsa” degli imprenditori).

Per tutte queste tipologie di imprese la crisi si concretizza rapidamente e si manifesta non appena “l’operazione” ha dato i propri preordinati “frutti”. In questi casi, ovviamente, la crisi è assolutamente irreversibile, perché si tratta di imprese destinate ad entrare in crisi proprio per disegno dell’imprenditore, rispetto alle quali, quindi non si può neppure ipotizzare un risanamento, o un salvataggio. Per queste imprese, sovente chiaramente identificabili ab initio la vera esigenza è quella di creare un cordone sanitario preventivo, che, abbia la capacità, la forza e l’idoneità di evitare che si costituiscano; ovvero, che, una volta costituite ed entrate nel mercato, perseguano fino in fondo il loro “criminale” disegno. A tal proposito deve essere certamente rivalutata quell’attività che spesso è considerata di routine, quale quella relativa al giudizio di omologazione dei contratti di società da parte del Tribunale, o quella del Giudice del Registro delle imprese in relazione al trasferimento nelle nostre aree della sede dell’impresa; così come quella attività di rilevazione di fenomeni anomali (per natura dell'attività, provenienza dei soggetti, dimensione del capitale) da parte degli organi di polizia tributaria e non.

Una particolare attenzione nella fase dell’insediamento certamente almeno scoraggerebbe certe iniziative o le terrebbe lontane da una determinata area geografica. Ovviamente più complicato è il discorso per le imprese, costituite altrove, che si trasferiscono nel territorio “da conquistare”. In tal caso diventa importante l’attenzione per certi fenomeni economici da parte delle forze di polizia, le quali dovrebbero essere sensibilizzate ad operare verifiche e controlli in situazioni che si presentano non omogenee all’ambiente nelle quali trovano estrinsecazione (così, per esempio, l’operatività di società finanziarie o di altri enti che più o meno surrettiziamente raccolgano risparmio e/o erogano prestiti o finanziamento dovrebbe indurre a tempestive verifiche).

Quindi, per queste imprese vi sono dei problemi particolari, che nascono dalla loro pericolosità. Problemi specifici, che meritano un convegno a parte, dove sarebbe interessante sentire anche la voce delle Autorità di pubblica sicurezza, di chi deve avviare l’azione penale, dell’economista. Confido che chi ha avuto la sensibilità, la dedizione e la pazienza di organizzare questo incontro, se ne possa fare carico.

4 - Veniamo ora alla figura che in questa sede interessa, all’impresa produttiva, l’impresa creata per la produzione di beni o di servizi, la quale può entrare in crisi per una serie di ragioni (lo accennava già prima il dr. Mordente).

Talvolta la crisi si risolve all’interno dell’impresa stessa; ciò accade quando gli elementi di rottura non sono particolarmente gravi, ovvero investono l’impresa per un breve periodo, ovvero perché l’imprenditore tempestivamente ha la capacità o la prontezza di adottare le opportune misure di recupero. In mancanza, la crisi si risolverà in uno stato di insolvenza, eventualmente all’inizio non manifestato, successivamente emergente da episodi isolati, e infine platealmente conclamato. La crisi può dipendere da fattori endogeni o da fattori esogeni; spesso le due cause si sommano ed assumono il potere di un moltiplicatore.

Con riferimento alle vicende interne all’impresa, ritengo che la prima causa di crisi vada ritrovata nei problemi finanziari.

Il nostro sistema giuridico non richiede alcun livello di capitalizzazione per l’imprenditore individuale e per le società di persone; una capitalizzazione irrisoria per le società cooperative; una capitalizzazione oggettivamente “minima” per le società per azioni, a responsabilità limitata, in accomandita per azioni. Peraltro, un dato comune per tutti è l’assenza di un rapporto legale (di tipo normativo o di tipo amministrativo) tra capitale e/o patrimonio e giro di affari (fanno eccezione al riguardo essenzialmente solo le società che operano nel settore finanziario, quali banche e società assicurative). Può dirsi, insomma, che un dato generalizzato, al riguardo, è la sottocapitalizzazione. Da ciò discende, che quando la effettiva capacità produttiva non riesce a coprire, oltre i costi di produzione, gli elevati costi finanziari, l’impresa si viene a trovare rapidamente in difficoltà.

Tale situazione incide sulla crisi, aggravandola per quanto attiene i suoi effetti per i creditori, anche sotto altro angolo visuale. E ciò a cagione del “normale” comportamento del ceto bancario.

Infatti, in presenza di questo insufficiente livello di capitalizzazione, mentre il fornitore fa credito essenzialmente facendo affidamento sul patrimonio dell’imprenditore debitore, ma ancor più sulla sua capacità imprenditoriale e correttezza commerciale, la banca per lo più fa credito fondando sul patrimonio di un terzo fideiussore o di un terzo datore di ipoteca; per cui, l’imprenditore di fatto riceve credito (e, quindi, assume debiti) per un valore eccedente il valore del suo patrimonio. Questo comporta che necessariamente l’imprenditore avrà assunto impegni superiori alle proprie forze, rispetto ai quali il ceto bancario è protetto, in quanto gode oltre che della garanzia patrimoniale del debitore, della garanzia di un terzo. Gli altri creditori, invece, vedono concorrere sull’unico patrimonio responsabile anche la banca, che comunque come dicevo, per lo più, gode anche di garanzie estranee.

Altro diffuso elemento di crisi è costituito dalla incapacità dell’imprenditore di organizzare, in forme efficienti la propria azienda, sì da produrre ad un giusto livello di economicità.

Massimamente con riferimento alla piccola impresa, abbiamo talvolta bravi operai o bravi artigiani, i quali diventano “imprenditori”, pur essendo privi di qualsiasi nozione (o qualsivoglia istruzione) per potere applicare corretti principi o regole d’impresa. In questi casi il mancato riferimento ad un valido esperto aziendalista diventa essenziale per l’impresa. E ciò, sia per quanto attiene l’organizzazione dell'azienda sia, e massimamente, per quanto attiene la struttura finanziaria.

Al riguardo va anche ricordato il fenomeno della sottrazione dei fondi d’impresa. Spesso, infatti, l’imprenditore pensa che “il ricavo” sia “l’utile”. Quanti imprenditori di piccolo-media dimensione diventano insolventi perché con i ricavi d’impresa si costruiscono una bella villa!

Temo in parecchi; proprio perché non c’è l’educazione a comprendere quale debba essere la destinazione dei ricavi; e, quindi, quale debba essere il rapporto tra il prelievo che fa l’imprenditore e la parte che, invece, egli deve necessariamente lasciare nell’impresa.

Con riferimento ai profili esogeni, può ricordarsi che la crisi dell’impresa può derivare da, una crisi generale del sistema economico, da una crisi sviluppatasi in una determinata area geografica, da una crisi di settore, cioè del settore specifico, nel quale la stessa opera, oppure, e forse è questa la causa più frequente, da limiti o incapacità propria dell’imprenditore ad adattarsi ai fattori ambientali esterni. Ancora, può accadere che l’imprenditore perda canali o fonti di lavoro che in precedenza riusciva ad utilizzare (forse si può indagare su come li avesse acquisiti; ma questo potrebbe essere un sotto-problema); oppure a causa della prima ricordata carenza di capitalizzazione iniziale dell’impresa stessa, e di una correlata “incapacità” di poter far ricorso al credito.

5 - Tali elementi sono tra quelli che in via autonoma o in connessione tra loro in tempi medio-brevi riducono l’impresa in difficoltà. In teoria, secondo una certa dottrina, in un mercato a concorrenza perfetta l’insolvenza dell’impresa non costituisce un grave danno, in quanto all’impresa insolvente si sostituirà l’impresa sana; quindi, non si produce alcun pregiudizio al sistema economico globale che conserva la propria potenzialità produttiva, né alle energie lavorative, che si trasferiranno nella impresa che, nel sistema, sostituirà quella decotta.

Nella realtà, a parte che il sistema di concorrenza perfetta non esiste, noi sappiamo che, proprio negli ambienti economici più deboli, in fondo, l’insolvenza di una impresa è una perdita secca per la collettività, non recuperabile. E’ una distruzione di ricchezza, in quanto gli strumenti organizzati, le attrezzature, i macchinari, alla fine, non saranno più utilizzati come potenzialmente avrebbero potuto esserlo; allo stesso tempo, la mano d’opera non viene subito riassorbita in iniziative alternative. Tutto questo comporta che, oltre la mancata utilizzazione di professionalità, c’è un massiccio ricorso al sostegno pubblico, che, come accennavo, proprio per la impossibilità del mercato di dare accesso a collocazioni alternative nel mondo dei lavoro, è destinato ad essere utilizzato per numerosi anni, anche attraverso “l’invenzione” di sempre nuovi strumenti. E’ noto che nelle zone più povere si ha un ricorso ai c.d. ammortizzatori sociali, sovente ben oltre il termine massimo di diciotto mesi previsti dall'art. 3 L. 223/91.

6 - Molti, quando c’è insolvenza, imputano al fallimento le ragioni della dissoluzione dell’impresa e del mancato o lento soddisfacimento dei creditori. Si afferma spesso che la disciplina del fallimento sia carente, e perciò non si risolvono in modo soddisfacente i problemi provocati dall’insolvenza. Ma dico: se c’è crisi irreversibile nessuna procedura concorsuale può provocare un’inversione di rotta; la migliore delle leggi fallimentari non può capovolgere una situazione ormai decotta. Indubbiamente si può pensare ad una procedura fallimentare che concorra in modo da raccogliere ciò che di buono ci può essere ancora nell’impresa insolvente, e consentirne il riutilizzo.

Da anni si discute di riforma del diritto fallimentare; ancora oggi c’è una Commissione ministeriale che ha allo studio questa riforma (di cui, tra l’altro, fa parte il Dott. Serao), anche se è una Commissione che è rimasta sostanzialmente congelata, a seguito delle modificazioni avutesi al vertice del Ministero di Grazia e Giustizia. Però, se c’è un problema di riforma della Legge Fallimentare, che indubbiamente può essere in qualche modo migliorata, la possibilità di una soddisfacente soluzione, per fare in modo che le crisi non si risolvano in buche incolmabili, va ricercata nel sistema giuridico nel suo complesso, con riferimento anche ad altri ben più ampi profili.

Innanzitutto, penso a quel profilo a cui poco fa accennavo del vincolo di capitalizzazione dell’impresa; si impone innanzitutto la necessità di rendere obbligatorio in qualche modo, un rapporto minimo tra il capitale investito, o comunque, il patrimonio netto dell’impresa, e il giro d’affari. Come dicevo, qualche cosa di simile si ha nelle imprese che sono sottoposte a vigilanza ministeriale, come per es. le imprese assicurative, dove c’è questo rapporto e, dove, nel momento in cui questo rapporto scende al di sotto di un certo minimo, scattano limiti (amministrativi) alla operatività dell'impresa. Si potrebbe eccepire che, se si generalizzasse tale sistema, avremmo un sistema imprenditoriale ingessato da vincoli amministrativi e sottoposto al dirigismo statale. Io penso che certe forme di rapporto tra patrimonio netto e giro d’affari potrebbero avvenire anche senza un vincolo di carattere dirigistico, ma, appunto, in quanto affidate alla responsabilità del tecnico aziendale che assiste l’imprenditore.

Anzi, potrebbe, addirittura costituire il vincolo ad un certo parametro anche una sorta di “caratteristica di qualità” dell’impresa, che possa essere utilizzata per meglio presentarsi sul mercato; e che potrebbe anche diventare motivo per conseguire condizioni più favorevoli (soprattutto) sul mercato del credito.

Poi, vi è un altro fondamentale profilo, cioè quello relativo al processo civile; se le procedure fallimentari durano otto, dieci, dodici, o anche venti anni e oltre, dove questo accade, e credo che accada un pò dappertutto, lo si deve, io penso, soprattutto alla lentezza del processo civile. Posso citare una mia esperienza diretta di curatore di un fallimento dichiarato dal Tribunale di Napoli nel 1983 dove, ad oggi, taluni giudizi, aventi ad oggetto azioni revocatorie fallimentari, non sono ancora giunti ad una sentenza di primo grado (benchè iniziati tempestivamente). Pensate, poi ci potrà essere il giudizio di appello e, quindi, il ricorso per Cassazione, con eventuale giudizio di rinvio. Alla stessa stregua, sono stato costretto, sempre come curatore, a proporre ricorso in sede tributaria avverso il diniego di un rimborso di credito per IVA vantato dalla società poi fallita; sono passati nove anni per giungere alla decisione della Commissione Centrale che, confermando le decisioni di primo e di secondo grado, ha riconosciuto il credito del fallimento; successivamente ho impiegato due anni per ottenere dal Ministero delle Finanze il rimborso del capitale e circa un altro anno per ottenere il rimborso degli interessi. Quindi, pensare di riformare il diritto fallimentare, mettendo mano solo alla legge fallimentare, secondo me, è solo una perdita di tempo, o quanto meno un progetto illusorio. Cioè, è necessario, perché si possa sperare in un qualche risultato proficuo, che vi sia una connessione tra tutti quelli che sono i fenomeni che trasversalmente intervengono nel momento della crisi e nella procedura concorsuale che ne consegue.

7 - Ma perché dal fallimento deriva un grave pregiudizio per l’economia in generale e per i creditori in particolare? Perché in effetti, il fallimento arriva quando ormai la situazione patrimoniale è irreparabilmente compromessa. Parlando in termini generali, e con salvezza delle eccezioni che la realtà offre, in linea di massima, ci si viene a trovare di fronte ad uno sbilancio tra attivo e passivo. Solo in casi molto marginali il Fallimento investe un patrimonio immobilizzato, ma ictu oculi attivo. Quindi, il pregiudizio per i creditori deriva o da questa prevalenza del passivo sull’attivo, e/o dal ritardo con il quale il ricavato dell'eventuale attivo sufficiente per soddisfare tutti i creditori viene distribuito, e per di più senza gli interessi per creditori chirografari. In linea di massima, poi, è da ricordare che l'attivo, una volta che da “attivo dell'impresa” diventa “attivo del fallimento” subisce una falcidia notevolissima del proprio valore nel momento in cui si attua la liquidazione.

Invero, l'attivo perde larga parte del proprio valore, innanzitutto, perché, cessando l'attività di impresa, si perde il valore di avviamento, per i lunghi tempi di fermo dei beni (si ricordi che non si può procedere alla vendita, se non dopo che è stato reso esecutivo lo stato passivo: art. 104 I. fall.); inoltre, per le difficoltà, cui facevo cenno, di dismissione proprie delle vendite forzate. In genere, gli acquisti in tale sede avvengono a prezzi molto bassi, solo se si tratta di un bene che abbia un valore “speciale” ed oggettivo, e l'ufficio fallimentare si mostri ferreo, si può recuperare qualche valore accettabile.

8 - Allora, la verità è che solo una effettiva prevenzione può consentire che le crisi abbiano una qualche soluzione positiva. Una prevenzione che, in qualche modo, consenta gli interventi più adeguati, sia in una eventuale fase stragiudiziale, sia per consentire il ricorso adeguato alle procedure alternative al fallimento (e non un ricorso disperato, residuale, cioè un ricorso quando tali procedure oggettivamente non hanno più alcun senso) sia per arrivare ad una tempestiva dichiarazione di fallimento. Certamente, in questo, i dottori commercialisti, che svolgono attività di assistenza e di consulenza alle imprese, hanno una specifica funzione, aggiungerei una funzione doverosa. Esistono certamente gli strumenti tecnico-giuridici perché il professionista possa svolgere in maniera efficace questa funzione: tra gli altri, non ultimo, la nuova struttura del bilancio, dove si evidenziano in maniera più analitica i profili patrimoniali e finanziari, con quella distinzione relativa ai termini di scadenza per il pagamento dei debiti ed ai termini di scadenza per l'incasso dei crediti che influenza la prognosi anche su quella che può essere la situazione finanziaria.

Ma dobbiamo chiederci se il commercialista, il tecnico che assiste l'impresa, è messo nelle condizioni di svolgere a pieno le proprie funzioni. Purtroppo, nelle piccole imprese l'assistenza del tecnico, del professionista, sovente è molto limitata ma non perché questo si rifiuti di dare assistenza, bensì perché l'imprenditore non solo non la la vuole; egli si limita a consegnare un pacchetto di fatture a fine mese, ed il commercialista le annoterà sui libri contabili, per poi alla fine predisporre il bilancio “fiscale".

E, per esperienza, mi consta che pure quando il professionista ha tentato di incidere sull'orientamento che assumeva l'andamento dell'impresa, non è stato ascoltato e, spesso, è stato finanche sostituito. Quindi, dico che il punto di partenza, e non lo dico perché siamo in un convegno organizzato dall'Ordine dei Dottori Commercialisti, stia proprio innanzitutto in questa necessità di educazione dell'imprenditore, e dell'imprenditore meridionale in particolare, affinchè comprenda l'essenzialità dell'intervento del professionista; di un professionista preparato ed onesto, il quale non abbia la funzione di assecondare il titolare dell'impresa, bensì quella di vagliare con spirito critico le sue iniziative, e avanzare le proposte migliorative dell’organizzazione e di ogni altro aspetto aziendale rilevante. Spesso, invece, l’imprenditore nasconde la vera situazione al professionista; fin quando, poi, non è arrivato allo stadio terminale.

Devo aggiungere, peraltro, che questa difficoltà di operare dei professionista si ritrova sovente anche nella grande impresa, dove prevale il potere del management, che ha obiettivi di bilancio, obiettivi di programmazione della propria attività, obiettivi di gruppo, aspetto ai quali il professionista viene talvolta messo da parte, o comunque non ascoltato.

Ritengo, infine, che certamente il professionista non compia opera meritoria (e giuridicamente e deontologicamente corretta) quando, all'opposto, diventa egli stesso “ingegnere” di costruzioni di pura sorte o addirittura in frode ai creditori.

9 - Se manca l'iniziativa dell'imprenditore, non vi è possibilità di intervenire dall'estemo sulle difficoltà dell'impresa. Se la difficoltà, secondo il nostro ordinamento, non si risolve in stato di insolvenza, i terzi non possono chiedere il ricorso ad una procedura concorsuale.

Quindi, si deve attendere, nonostante sia emersa tale difficoltà che si arrivi allo stato perché si possa intervenire su iniziativa dei creditori; anzi, che si manifesti lo stato di insolvenza. E questo si spiega; intervenire con una procedura significa limitare l'iniziativa econornica privata, significa interrompere l’esercizio dell'attività economica libera, ed imporre la sostituzione dell'imprenditore con un organo pubblico. Allora, se questo deve avvenire, puo avvenire solo quando ricorrono certe condizioni di irreversibilità, che giustificano tale forma di esclusione del titolare del patrimonio, dalla gestione e dal potere di disporre.

Quindi, il discorso ritorna necessariamente sulla prevenzione, una prevenzione che, al momento, è affidata solo all'imprenditore. Quando, negli anni '70 il nostro sistema economico si venne a trovare in una fase notevolmente critica, vi fu un ricorso anomalo alle procedure concorsuali c.d. minori (concordato preventivo e amministrazione controllata) e al tempo stesso una modificazione dell'art. 187 I. fall., in tema di amministrazione controllata; con tale modifica, furono introdotte, tra i requisiti per l'ammissione a tale procedura, anche “le comprovate possibilità di risanare l'impresa”. Si disse all'epoca che, in fondo, queste procedure alternative al fallimento non tutelavano più soltanto l'imprenditore onesto ma sfortunato, bensì avevano anche la funzione di tutelare la sopravvivenza dell'impresa, attraverso la conservazione delle strutture aziendali. Ma, nonostante tale orientamento, su cui non sono sicuro di poter convenire, non si riuscì a superare il dato normativo secondo il quale solo l'iniziativa dell'imprenditore consentiva il ricorso all'amministrazione controllata; in mancanza, non c'era possibilità di surroga.

Ricordo che in quegli anni ci fu anche un progetto redatto con molta cura da tre dottori commercialisti, Chiaraviglio, Gerini e Serveglini, i quali proponevano proprio la possibilità di un intervento preventivo sull'impresa in crisi ad iniziativa dei creditori, che, appunto, consentiva al Tribunale di poter “entrare” nell'impresa prima che si fosse verificata l'insolvenza, e di concordare con l'imprenditore le possibilità di soluzioni che potevano essere individuate. Ma questo progetto non ebbe poi sbocco; così come i progetti di riforma della Legge Fallimentare, che in qualche modo raccoglievano tale proposta, sono rimasti sostanzialmente fermi.

A questo punto una qualche strada bisogna pure indicarla. Il punto di partenza deve essere innanzitutto questa capacità di analisi interna da parte dell'imprenditore, rispetto alla quale giungere ad una valutazione globale della situazione. Sulla base di tali valutazioni tempestive si dovrebbe scegliere qual è la strada da percorrere per giungere ad un recupero produttivo o almeno ad una “sistemazione” delle posizioni debitorie. Verificare se sussistono le condizioni per un concordato stragiudiziale con tutti i creditori, con la consapevolezza che se - una volta stipulato - lo stesso non venga completamente adempiuto, si avrà necessariamente il fallimento e ci si esporrà ad una serie di azioni revocatorie.

Altra ipotesi è la possibilità di alienazione di un ramo dell'azienda; ma se questo avviene nel momento in cui si è già manifestato lo stato di insolvenza, difficilmente si potrà concretizzare, perché anche questo diventerà un atto revocabile nel caso di fallimento.

Quindi, perché l'imprenditore possa avere una piena autonomia nel potere di disporre di parte dei propri beni o nell'organizzare in qualche modo degli accordi transattivi, è necessario intervenire prima che si manifesti lo stato di insolvenza; ma si badi, non perché l'imprenditore sia riuscito ad occultarlo, ma perché non si è ancora concretizzato all'interno dell'impresa. Quindi, è in questa fase preliminare che si possono fare tali opzioni.

So che tutto ciò è difficile; l'imprenditore, per carattere, è ottimista: spesso rifiuta di leggere la realtà; è geloso della sua autonomia: in fondo l'imprenditore ha una sua Struttura mentale particolare, che è difficile modificare o indirizzare. E' un dato caratteriale che è alla base della stessa attività di impresa; ma è su questo dato caeatteriale che il “consulente” deve avere la possibilità di incidere.

Ciò perché queste operazioni possono essere compiute solo prima che la difficoltà all'interno dell'impresa sia irreversibile, e comunque prima che si sia manifestato lo stato di difficoltà di adempiere o uno stato di insolvenza. Infatti, dopo sarà difficile dar corso ad operazioni di questo tipo, perché i terzi sono consapevoli di poter subire l'azione revocatoria; allora, o non si trova il contraente o lo si trova, ma “a caro prezzo” per l'imprenditore; nel senso che il terzo sarà disposto a contrattare solo se copre il rischio della revocatoria. Allora, in tale ambiente, queste operazioni o non porteranno mai ad un risultato utile o se pure porteranno a un risultato utile avranno pregiudicato la potenzialità economica dell'imprenditore, facendogli pagare il costo della crisi non quanto vale, ma almeno il doppio.

10 - Ci potrebbe essere anche un'altra possibilità alla quale però certamente voi guarderete un poco con sospetto. Comunque come ipotesi di lavoro si può proporre, perché, poi, certe situazioni una volta verificatesi sono viste in modo diverso. Il nostro ordinamento (art. 5 I. fall.) innovando rispetto al codice di commercio che faceva riferimento come presupposto oggettivo del fallimento allo stato di cessazione dei pagamenti, ha identificato una situazione, direi un po' nebulosa, come lo stato di insolvenza; cioè, una situazione oggettiva che non ha dei contorni precisamente definiti. Per cui, in fondo, c'è un'area di interpretazione di questo concetto di stato di insolvenza, che può partire da una prognosi di incapacità di adempiere alle proprie obbligazioni anche con riferimento al futuro, per arrivare fino al momento della incapacità attuale di adempiere.

Quindi, se si volesse interpretare questa situazione di insolvenza in maniera in qualche modo prognostica, si potrebbe anche arrivare ad un fallimento quando la situazione matrimoniale non è ancora pregiudicata. E badate, questo non significa distruggere l'impresa e sottrarla definitivamente all'imprenditore. Ciò in quanto un fallimento, ben condotto, di un'impresa che non è decotta, può diventare un momento attraverso il quale, addirittura l'imprenditore, se l'impresa aveva ancora un suo pezzo di utilità, potrebbe riprendere la propria attività o attraverso un concordato o con il residuo attivo della liquidazione fallimentare. E' chiaro che il fallimento diventa un momento distruttivo irreversibile, un pregiudizio senza speranza sia per l'imprenditore che per i crediton, quando ci si arriva con una situazione assolutamente irrecuperabile; quando ci si arriva dopo aver compiuto atti di astrazione o di distruzione, che saranno sanzionati penalmente.

Bisogna ricordare, andando oltre la sensibilità comune che vede nel fallimento una situazione infamante, che questa procedura oggi - pur comportando talune limitazioni - ha tale risvolto solo come eventuale. Basti pensare che con il pagamento integrale dei creditori e delle spese della procedura si può ottenere immediatamente la riabilitazione (art. 143 n. 1 I. fall.) e quindi la cancellazione dal registro dei falliti (art. 50 I. fall.). E' caduto il carattere infamante 2 che caratterizzava tale procedura nelle legislazioni anteriori; la sanzione penale è prevista solo nei casi in cui sono stati tenuti particolari comportamenti pregiudizievoli per i creditori o che offendono la fede pubblica.

Al tempo stesso il fallimento si può tradurre in uno strumento di prosecuzione dell'attività d'impresa, attraverso l'esercizio provvisorio (art. 90 I. fall.) che, quindi, può consentire una realizzazione globale dell'azienda, la quale così non perde neanche il valore di avviamento. Insomma, è anche attraverso questa ottica che si può guardare al fallimento.

Si può quindi, se pure con grande approssimazione, concludere nel senso che la irreversibilità della crisi, lo scarso soddisfacimento dei creditori, la distruzione di ricchezza non sono l'effetto delle procedure concorsuali o un carattere naturale delle stesse. Cioè, in larga misura, non è un problema di procedure concorsuali: il problema è di come ci si arriva.

 












 

 

 


2000 (c) ilFallimento.it - Ideato e diretto dal Dott. Raimondo Olmo
Torre Annunziata (Napoli) - Corso Umberto I, n.242